Lug 04

Una lettura comparativa fra poesia e pittura

di Enrico Guarnieri

Prenderemo in esame degli spezzoni di due poesie dall’identico titolo “Il bove”, la prima del Carducci e la seconda del Pascoli comparandole con due oli del Fattori:

“Il riposo” o “Carro rosso”

“Bovi al carro”

IL BOVE (Carducci)
T’amo, o pio bove; e mite un sentimento
Di vigore e di pace al cor m’infondi,
O che solenne come un monumento
Tu guardi i campi liberi e fecondi,

O che al giogo inchinandoti contento
L’agil opra de l’uom grave secondi:
Ei t’esorta e ti punge, e tu co’l lento
Giro de’ pazienti occhi rispondi

In queste strofe carducciane si percepisce a pieno l’idea grandiosa dell’animale in un misto di forza e di docilità, quasi sbalzato in primo piano su una campagna ubertosa, frutto anche del suo lavoro in perfetta simbiosi con quello dell’uomo. Si riesce inoltre a captare una natura silente, alla quale il poeta, come gli accade di rado, sembra avvicinarsi quasi in punta di piedi in una sorta di religiosa deferenza, per non turbare l’equilibrio di questo magico istante.

La stessa monumentalità dell’animale si ritrova anche nel dipinto “Il riposo” eseguito dopo circa quindici anni dalla stesura della poesia presa in esame e con molta probabilità nota al Fattori; infatti proprio da essa pare sgorgare questo capolavoro dove i colori dei buoi raffigurati, nella loro variazione tonale del bianco, sono indagati minuziosamente nella loro struttura anatomica che diviene pertanto mezzo d’analisi e di studio delle modulazioni cromatiche fra luce ed ombra.

Le possenti sagome dei buoi sono il soggetto principale dell’opera, quasi incorniciate dal carro rosso realizzato in perfetto ed ardito scorcio e la sagoma bruna del contadino che spossato dal lavoro si concede un momento di riposo. Tutto è realizzato con grande forza pittorica, quasi che l’artista, abbia attinto dal vigore seppur statuario degli animali l’energia necessaria per eseguire l’opera, che si stempera nella bella lingua azzurra di mare.

IL BOVE (Pascoli)
Al rio sottile, di tra vaghe brume
guarda il bove, coi grandi occhi: nel piano
che fugge, a un mare sempre più lontano
migrano l’acque d’un ceruleo fiume;

ingigantisce agli occhi suoi, nel lume
pulverulento il salice e l’ontano;
svaria su l’erbe un gregge a mano a mano
e par la mandra dell’antico nume.

Anche se da questi versi traspare il senso panico della natura, il bove pascoliano è meglio inserito e forma un tutt’uno con i brevi cenni naturalistici che lo circondano e solamente con essi si rapporta.

L’animale qui non è mitizzato ma colto in un tono d’agio, più analizzato nella sua indole, senza il fine dell’utilità per l’uomo. Infatti non c’è menzione né di gioghi né di campi arati, ma tutto vi è descritto con bella suggestione naturalistica, la stessa che troviamo nell’opera “Bovi al carro” completata dal Fattori nel 1867, durante il suo primo vero soggiorno a Castiglioncello, nella tenuta del Martelli in compagnia di Giuseppe Abbati e di Odoardo Borrani.

Questo sodalizio stimolato dal luogo e dalla forte luce solare, prosegue nella ricerca di ciò che da sempre assillava la compagine Macchiaiola, ovvero lo studio del valore cromatico del colore e la sua applicazione ai temi naturali.

Durante questo soggiorno, il Fattori, in perfetta simbiosi con l’Abbati, si cimenta nell’applicazione dei bianchi sugli animali in movimento, studio rappresentato in quest’opera in uno dei suoi massimi vertici. Infatti i bianchi del manto dei buoi, insieme ai bruni del colono ed al rosso del carro formano una piramide di grande effetto cromatico.

Il gruppo uomo-animali è inserito perfettamente nell’assolato paesaggio con i piani del territorio scalati in profondità digradanti verso il mare e formanti con esso bellissimi accordi cromatici, conclusi da un delicato e variegato cielo che fa risaltare i toni scuri della quinta formata dalle sagome di un colle e di una siepe.

In quest’opera si raggiunge quella totalità che prima ravvisavo nei versi del Pascoli, anche se il Fattori ci comunica un senso della realtà più energico e più vero facendoci partecipi dell’aspra bellezza di questa terra rappresentata.

Proseguendo il nostro raffronto si possono accomunare alcuni spezzoni di “Davanti San Giudo” del Carducci e di “Romagna” del Pascoli con capolavori fattoriani:

“Cavalli in Tombolo”

"Pasture"

DAVANTI SAN GUIDO

I cipressi che a Bolgheri alti e schietti
Van da San Guido in duplice filar,
Quasi in corsa giganti giovinetti
Mi balzarono incontro e mi guadar

Rimanti; e noi, dimani, a mezzo il giorno
Che de le grandi querce a l’ombra stan
Ammusando i cavalli e intorno intorno
Tutto è silenzio ne l’ardente pian,

Ansimando fuggia la vaporiera
Mentr’io così piangeva entro il mio cuore
E di poliedri una leggiadra schiera
Annitrendo accorrea lieta al rumore

Con due istantanee degne della più bella sintesi Macchiaiola, il poeta ci descrive egregiamente il paesaggio mostrandoci una Maremma assolata e silente, con grande senso del luogo, del tempo e dell’ora. Bellissimi i penultimi quattro versi finali della poesia che ci riportano alla realtà in modo prorompente, anche se da questi versi più che un senso di forza ci giunge la delicata eleganza e la grande socialità, caratteristiche peculiari del cavallo.

E’ proprio questa vitalità equina che accomuna versi e quadro perché “Cavalli in Tombolo” è un inno alla grande vitalità dell’animale prediletto dal Fattori e lungamente da lui studiato più degli stessi buoi ed analizzato nella sua struttura e nella sua psicologia attraverso disegni e dipinti durante tutto l’arco della sua carriera artistica.

Nell’opera i cavalli, nella loro libera corsa, sono magistralmente inseriti in un paesaggio dalle tonalità severe e dalla metrica ancora neo-cinquecentesca che i pini e gli arbusti scandiscono perfettamente. I corpi degli animali sprigionano tutta la loro potenza ed evidenziano tutta la loro naturale armonia dando all’opera un senso di poderosa eleganza, ben espressa dal polverone alzato e dalle membra stese nello sfrenato galoppo.

ROMAGNA
Sempre un villaggio, sempre una campagna
mi ride al cuore o piange, Severino:
il paese ove, andando, ci accompagna
l’azzurra vision di San Marino:

Là nelle stoppie dove singhiozzando
va la tacchina con l’altrui covata,
presso gli stagni lustreggianti, quando
lenta vi guazza l’anatra iridata

e s’abbracciava per lo sgretolato
muro un folto rosaio a un gelsomino;
guardava il tutto un pioppo alto e slanciato,
chiassoso a giorni come un birichino.

In questa poesia le affinità sono più nascoste e confrontandola con l’olio “Pasture” si può scorgere un comune senso di mestizia, più lenito dal tempo, ma sempre vivo nel Pascoli perché il poeta era stato segnato dalle vicissitudini derivanti dall’assassinio del padre ed il conseguente abbandono della tenuta la Torre. Invece più pressante ed attuale nel Fattori, in preda alla disperazione per l’aggravarsi della tisi della moglie Settimia. Inoltre si può trovare una convergenza anche nel paesaggio di largo respiro del quadro con gli ultimi due versi della prima quartina, dove il poeta ci da l’idea della vastità della campagna romagnola in poche righe. Così come in pochi versi ci fa percepire la calura di un giorno d’estate e la quieta bellezza di questa terra.

In queste strofe c’è tutta la semplicità di un mondo arcano e di un naturalismo ordinario, fatti di attenzione alle cose del vivere quotidiano.

Anche l’entroterra livornese, dove è  ambientato “Pasture”, opera dominata dai colori ocra e terra, è pervaso da quiete e bellezza. E’ singolarmente stupefacente come un animo così vessato dalla sventura possa trovare la forza ed il necessario pathos col “motivo” per realizzare un opera così mite e solenne dove tutto è misurato e si compenetra perfettamente nell’andamento orizzontale nell’incastro dei piani del terreno e nelle verticali date dai cavalli, dalla fascinaia, dal buttero e dalle case in lontananza. Sul terreno arato di fresco spiccano per contrasto le macchie dei cavalli che pascolano tranquillamente e la gamma dei verdi, tipica della sua pittura, è ben orchestrata e contribuisce a ravvivare la scena che, come già evidenziato da altri, è pervasa da elegiaca mestizia.

Passiamo ora ad esaminare due quartine tratte, la prima, da “San Martino” del Carducci e la seconda da “Gattici” del Pascoli dove il tema comune scaturisce dalla nebbia e dalla sua incidenza sul paesaggio.

SAN MARTINO
La nebbia a gl’irti colli
Piovigginando sale,
E sotto il maestrale
Urla e biancheggia il mar;

Questi versi concisi del Carducci rendono magistralmente l’idea del paesaggio, proprio come una bella tavoletta dipinta sul “motivo”. Ancora una volta l’immagine è precisa, senza inutili descrittivismi, infatti la scena è contraddistinta dalla nebbia che qui è quasi tattile ed anche il mare tempestoso fa solamente parte dell’insieme paesistico, sfrondato dal suo simbolismo più ricorrente, quello cioè di rappresentare le passioni ed i travagli umani.

Secondo il mio giudizio la prima quartina contrasta nettamente con l’ultima che, infatti, non ho riportato perché la ritengo di stampo più romantico.

I GATTICI
E vi rivedo, o gattici d’argento,
brulli in questa giornata sementina:
e pigra ancora la nebbia mattutina
sfuma dorata intorno ogni sarmento

I primi quattro versi del Pascoli, invece, sono più impregnati dai ricordi e proprio perché “ricordati” mi appaiono più soffusi. Qui la nebbia, anche se si accorpa di più all’ambiente, è meno concreta, quasi più “castellata” ed il Pascoli, in poche righe, ci rende l’idea della tristezza di un paesaggio tardo autunnale, quando la natura persi i suoi caldi colori rosso-oro diviene quasi scheletrica.

Suggestivo risulta l’ultimo verso della quartina in esame, dove il poeta blocca l’immagine, quasi da istantanea fotografica, evidenziando l’attimo in cui la nebbia, sotto l’irrorazione solare, si dilegua e ci rivela i tralci della vite che riprendono il loro naturale peso specifico.

E’ stato quasi impossibile trovare nell’opera fattorina la presenza della nebbia nel paesaggio, qualche rara eccezione è costituita da alcuni dipinti, tutti di soggetto militare, dove la bruma di sfondo è più la conseguenza del concitato scontro e dei fumi della battaglia, che un reale accadimento atmosferico. Infatti il nostro pittore pur avendo frequentato negli anni giovanili lo studio del Pollastrini, pittore a volte brumoso, non contempla tale elemento nelle sue opere, forse per due ragioni: la prima è che il suo carattere schietto non consentiva mediazioni e come un buon libeccio spazzava via tentennamenti e nebbie mostrandoci le cose nella loro giusta dimensione, anzi scavando fino al loro nocciolo duro; la seconda è che la nebbia rarefacendo l’immagine ne alleggerisce il peso ottico e ciò è più tipico dell’impressionismo che della pittura Macchiaiola la quale faceva , della concretezza e del peso dei volumi, il suo credo.

Pertanto, non riuscendo a trovare un reale punto di convergenza tematica, né un filo, seppur manipolato, che mi permetta di accostare un’opera fattorina più di un’altra ai versi ora del Carducci, ora del Pascoli, mi propongo di accomunare il bozzetto del “Campo italiano dopo la battaglia di Magenta

ed il quadro “Episodio dell’assalto alla Madonna della Scoperta

ad entrambe le poesie congiungendole ad esse attraverso i fumi che coprono l’orizzonte dei due campi di battaglia.

“Magenta” è il bellissimo bozzetto vincitore del Concorso Ricasoli, bandito nel 1859, la cui vincita gli permise di realizzare la grande tela dall’identico titolo, tela che attualmente si trova alla Galleria d’Arte Moderna di Pitti. Il bozzetto, eseguito nel 1860, è un tipico esempio di macchia chiaroscurale, che l’anno successivo si evolverà in tonale; proprio con opere come questa il Fattori, anche se un po’ defilato dal movimento, contribuirà in maniera determinante al suo sviluppo.

L’opera risente ancora dell’impianto rinascimentale, scandita in primo piano dalle verticali dei soldati e del carro ambulanza, mentre lo sfondo è realizzato a fasce orizzontali che si dissolvono nel fumo della battaglia.

La coloritura, come sempre in questo periodo, è severa e parca con gli ocra, le terre e i verdi dominanti il paesaggio vivacizzato qua e là dai rossi delle divise dei soldati francesi e dai bianchi che trovano il loro più alto esito nelle pettorine e nei copricapo delle suore del carro ambulanza.

Invece lo spazio del quadro “Episodio dell’assalto alla Madonna della Scoperta”, dipinto nel 1864, è spartito dalle diagonali dei granatieri, dei cavalleggeri e dalle batterie dei cannoni che quasi vanno ad intersecarsi per formare un comune fronte d’urto in profondità; lo spazio è più ristretto e l’orizzonte è più basso rispetto al bozzetto di “Magenta”, così l’azione risulta più serrata e concitata, con tale espediente vengono valorizzati i primi piani e quelli intermedi dove si svolge tutta l’azione, mentre l’orizzonte è quasi completamente celato dai fumi e dal polverone della battaglia.

La cromia dell’opera è d’intonazione più chiara di quella analizzata precedentemente ed il contrasto chiaroscurale meno marcato, frutto di quell’evoluzione di tutto il movimento macchiaiolo a cui facevo cenno in precedenza.

Da notare, infine, la figura del cavallo nero in primo piano che nella sua struttura dilatata e schiacciata dall’irruenta corsa, richiama la sagoma di un altro cavallo realizzata qualche decennio dopo, quella dello “Staffato”.

Se le poesie contengono più o meno una sottile vana nostalgica, le opere fattoriane ne sono prive, perché lui è un uomo del presente e trova la sua vera dimensione artistica nell’attualità più consueta. E’ il cantore degli umili, come i suoi soldati che, privi di eclatanti slanci eroici, fanno solamente il loro dovere che le circostanze della vita impongono loro.

Per l’ultimo raffronto prenderò dal Carducci la terza doppia quartina di “Nostalgia” e dal Pascoli gli otto versi iniziali della “Cavalla storna” abbinando, la prima, a “Cavalli al pascolo

ed i secondi a “Coperte rosse”, due opere superbe del Fattori. Ancora una volta il tema comune è il cavallo, ripreso, dai versi carducciani, nella sua fiera libertà brada e aggiogato dall’uomo nel Pascoli.

NOSTALGIA
De le mie cittadi i vanti
E le solite canzoni
Fuggirei: vecchie ciancianti
A marmorei balconi!
Dove raro ombreggia il bosco
Le maligne crete, e al pian
Di rei sugheri irto e fosco
I cavalli errando van

Negli ultimi quattro versi dello stralcio, il poeta ci descrive nuovamente un aspetto del paesaggio maremmano, tema ricorrente in molte sue opere, questa volta presentato nel suo aspetto più aspro e selvaggio ma comunque sempre arcadico perché il Carducci nel suo ricordo velato di nostalgia aveva idealizzato la Maremma, eleggendola quale suo rifugio e riparo per sfuggire la mediocrità del contemporaneo vivere quotidiano.

Infatti non mi risulta che in qualche sua poesia abbia mai sfiorato il dramma della malaria, che allora mieteva vittime in quelle terre non ancora completamente bonificate o abbia mai accennato al duro lavoro dei butteri e dei contadini, reso ancor più grave da una terra riarsa.

Eppure, anche in queste strofe, ci mostra il lato selvaggiamente aspro di quei luoghi parzialmente bonificato dal suo forte desiderio di ritornare nel grembo materno di quella terra che lo aveva allevato. Invece, i primi quattro versi ci evidenziano una forte tangenza con la psicologia “fattorina” cioè quella di preferire l’aspetto primigenio della natura a discapito delle bellezze monumentali dell’opera umana, nonostante entrambi conoscessero benissimo la maggior parte delle opere d’arte, vanto di molte città italiane. Eppure i due artisti sembrano preferire all’ingegno dell’uomo, quello di Dio, anche se il Carducci più del Fattori avrebbe preferito dire “l’ingegno e l’incanto della natura”.

Questa forte affinità verso il naturale selvaggio e libero, soggetto reiterato di molte loro composizioni, ci può spiegare un’opera quale “Cavalli al pascolo”, straordinario quadro in cui un piccolo branco di cavalli bradi pascola tranquillamente in una pianura dove il primo piano e l’intermedio, molto lavorati, sono ricchi di arbusti e di ciuffi d’erba dipinti con una gamma di colori dall’intonazione austera a cui fa riscontro, sullo sfondo una pianura libera e semplificata, realizzata con una bella variazione d’ocra e chiusa da una sottile striscia di mare alla quale bene si accorda il cielo dalle sfumature grigio rosate.

Anche in quest’opera, come in tutte le sue più riuscite, si percepisce l’incanto emotivo di un attimo, suscitato in lui da questo scorcio di paesaggio, che ci riconsegna filtrato dai suoi sensi e dalle sue emozioni realizzando un “vero” più che credibile. Proprio questo

evidenziare il naturale primigenio ed aspro, ben rappresentato dal paesaggio maremmano, è il filo più forte che lega l’opera fattorina alla lirica del Carducci.

LA CAVALLA STORNA
Nella Torre il silenzio era già alto.
Sussurravano i pioppi del Rio Salto.
I cavalli normanni alle lor poste
Frangean la biada con rumor di croste.
Là in fondo la cavalla era selvaggia,
nata tra i pini su la salsa spiaggia;
che nelle froge aveva del mar gli spruzzi
ancora , e gli urli negli orecchi aguzzi.

Questi versi iniziale della poesia sono pervasi e quasi dominati dai piccoli rumori quotidiani, che rompono il tragico silenzio. Quasi il poeta, rievocando quel drammatico momento, senta un pressante bisogno di normalità attraverso la quale evadere da quella tragedia.

Sappiamo bene come questo avvenimento segnò tutta la sua vita e tutte le sue opere. In queste strofe non ci sono molte notazioni paesistiche ma il poeta con pochi elementi descrittivi ci comunica l’atmosfera di quella che poteva essere una comune, tranquilla serata, quando finiti i lavori dei campi, sistemati e custoditi gli animali nella stalla ci si apprestava al riposo serale.

Tranquillità che qui ha valenza di una sospensione ottimale, quasi una serena “ouverture” prima dello svolgersi del dramma già in atto. Proprio la stessa emblematica sospensione, ritroviamo in “Le coperture rosse”, bella tela del Fattori, realizzata ancora con gli ocra ed i bruni in tutte le loro svariate gamme, che definiscono il terreno, le scarne architetture e rendono benissimo il senso dell’ora e dell’atmosfera quasi metafisica.

Questo impianto troppo cupo, è vivacizzato dai bianchi del cavallo e dai rossi delle coperte che coprono gli animali, colti nel loro rientro dal lavoro quotidiano, comici testimoniano le spalle cadenti degli uomini, il movimento lento e pesante del cavallo bianco e la resa dell’ora serale.

Degno di nota è l’uomo ancora a cassetta dipinto senza volume, quasi una sinopia monocroma. La scena, come di consueto nel Fattori, è essenziale, senza nessun sovrappiù di quello che serva all’economia dell’opera. Infatti l’artista disdegnava gli orpelli descrittivi, all’epoca tanto di moda, andando dritto all’essenza dell’esistenza umana anche correndo il rischio di apparire triste e privo di idee creative; invece proprio così nascono i suoi capolavori, degni di essere comparati con quelli delle coeve avanguardie europee.

Chiedo scusa di non poter pubblicare a corredo del testo le foto dei quadri esaminati, che avrebbero arricchito e chiarito meglio il mio discorso, ma l’attuale legislazione non mi consente di riprodurle se non dopo preventiva autorizzazione dell’ente o del privato proprietari dell’opera e credetemi, ciò non è facile se non a volte impossibile. Per ovviare a questo inconveniente mi sono riproposto di prendere in esame tutte opere famose e molto pubblicate, quindi basterà sfogliare un qualsiasi catalogo dell’opera fattorina per trovarle facilmente.

written by Elena Sladojevich \\ tags: , , ,


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