Ago 08

E’ uscito il nuovo numero di UNUCI TOSCANA diretto dal nostro Marcello Sladojevich.

Di questo numero segnaliamo:

La Via Italiana alle Colonie” di Marcello Sladojevich

Un eroico Cappellano Militare: Ten. Don Facibeni(fondatore della Madonnina del Grappa) di Antonio Fredianelli

Una via “tutta” italiana verso il colonialismo imperiale: un’opzione militare ponderata e coordinata dalla diplomazia

di Marcello Sladojevich

Già la timida  conversione economica politica dell’Italia di metà ottocento costrinse il nostro paese ad affrontare la questione di allargare gli orizzonti commerciali e di approvvigionamento delle materie prime.

Maggiore Pietro Toselli

L’Italia, quindi,  si dovette adeguare, in concorrenza con le grandi potenze europee, alla necessità di un’espansione territoriale verso altri continenti che fino ad allora era stata qualificata come “colonialismo” ma che da metà ‘800, ancora per un secolo circa, sarebbe stata ribattezzata in “imperialismo”.

Il modo di approccio alla questione coloniale imperialista per il nostro Paese fu comunque del tutto originale che  alcuni hanno poi definito, forse con disprezzo, come “via italiana all’imperialismo”. Di fatto i nostri comportamenti sul campo, sia dal punto di vista militare sia dal punto di vista politico, rappresentarono un tentativo di sviluppo di rapporti sociali e di interazione con le popolazioni “acquisite” più che una vera attività di razzia e di asservimento, comportamenti tipici delle altre nazioni imperialiste.

Per la verità anche il metodo scelto per “espandersi” fu alquanto originale, non certo con la forza delle armi, perlomeno sull’inizio, ma con l’astuzia della diplomazia e di una mascherata operazione commerciale ed economica operata da privati.

La  “colonia pri­mogenita” italiana fu in terra d’Africa, in Eritrea, terra ancora “libera” da interessi internazionali delle Grandi Potenze ma comunque limitrofa ad altre colonie.

A  rendersi conto delle no­stre possibilità fu padre Giuseppe Sapete, un missionario lazzarita sbarcato a Massaua e successiva­mente spintosi all’interno seguen­do le orme di una precedente missione esplorativa condotta dall’ammiraglio Anton, uno dei navi­gatori napoletani della nobile famiglia di marinai inglesi stabilita­si da tempo nel nostro Paese.

Tornato in Italia, padre Sapete, già nel lontano nel 1838 ebbe modo di parlare della questione con Cavour. Comunque ancora i tempi non erano maturi per carenza di “contrappeso” politico del piccolo Stato savoiardo/piemontese di fronte a potenze coloniali come quelle francesi o inglesi.

Soltanto dopo l’avvenuta costituzione dello “Stato unitario” e comunque successivamente all’apertura del Canale di Suez, (progettato dall’ita­liano Luigi Negrelli e concluso nel 1869) l’idea di Sapete divenne realistica, tanto che più del “ponderato” Cavour fu Vittorio Emanuele II, favorevolmente interessato dalle “stravaganze” del missionario, ad incoraggiare il Governo a propor­re una convenzione per l’acquisto di una rada o di un porto nel Mar Rosso.

Comunque il nostro Governo si mosse con la dovuta prudenza e proprio per non esporsi apertamente e non disturbare così la suscettibilità delle altre grandi potenze, fu delegata la società di navigazione dell’armatore genovese Raffaele Rubattino a stipulare un accordo che le assicurasse nel por­to di Assab una base di riforni­mento ed assistenza per i suoi ba­stimenti diretti in Oriente.

Quale fosse l’importanza di Assab, e quindi la lungimiranza strategica dell’allora Governo Italiano, lo di­mostrano anche gli odierni tentati­vi degli etiopici di impossessarsene. La scelta di Rubattino era ben motivata, non solo perché il mu­nifico armatore aveva fondato nel 1840 la prima compagnia di assi­curazione e navigazione a vapore, ma soprattutto perché era notoria­mente animato da ferventi senti­menti patriottici. Era stato proprio l’armatore genovese che aveva provveduto a rifornire e sal­vare i volontari della Repubblica Romana, era lui che aveva sostenuto la spedi­zione di Carlo Pisacane, fra l’altro rimetten­doci la nave “Cagliari”, ed era stato proprio Rubattino che, facendo finta di non ostacolare, aveva permesso ai garibaldini in partenza per la spedizione dei “Mille” di  impossessarsi nel porto di Genova dei suoi piroscafi  Lombardo e Piemonte.

L’armatore genovese fu abilissimo nel tenere al ripa­ro il Governo dalle trattative per l’acquisto della base di Assab: concordò un prezzo di 15.000 talleri, dei quali 250 versati a titolo di caparra.

Ovviamente a condurre la “mediazione” fu l’intra­prendente missionario Sapete, che per la stipula della convenzione ritornò ad Assab a bordo del vapore Africa, e fu il “Frate”, per primo a prendere possesso, in nome  e per conto,  del “posto di appoggio e rifornimento” per le navi della Rubattino in viag­gio verso le Indie.

Non contento di quanto già ottenuto, padre Sapete si diede ulteriormente da fare facendo ac­quistare anche la località di Buia e ottenendo dal sultano di Raheita la cessione delle isole Darmahié.

Per mitigare i dubbi delle potenze europee, allarmate da questa operazione, che sicuramente non consideravano meramente commerciale, il Sapete ebbe la brillante idea di costruire una baracca di legno ad Assab sulla quale fece apporre una spropositata scritta: Ufficio della Compagnia Rubattino.

Per la verità  la “baracca italiana” fu anche occupata, per un brevissimo periodo, da militari inglesi della nave Cartum, inviata sul luogo dal governatore di Massaia, ma poi fu trovata una soluzione diplomatica, non militare, dagli abili diplomatici italiani che convinsero il Governo inglese della nostra funzione di interdizione alle pretese espansionistiche della Francia nel  Mar Rosso.

La Corona Italiana remunerò Rubattino con un seggio da Senatore, incarico di breve durata, 1876 al 1880, poiché il “senatore” si ammalò e di lì a poco morì, 1881.

In seguito “gli italiani”, la “Rubattino” si era fusa con la palermitana “Florio” in “NGI Navigazione Generale Italia”, acquisirono anche le isole Om-El-Bakar e fra Assab e Ras Lumach, la deli­mitazione di un consistente territorio che si estendeva per una lun­ghezza di 36 miglia di costa e un interland di 630 kmq.

Intanto intorno al­la baracca della Rubattino si era già formato il primo nucleo della futura colonia Eritrea.

A questo punto, il Governo italiano non po­teva più restare nell’ombra ed  in­fatti il ministro Cairoli istituì ad Assab un “Commissariato Civile”.

La decisione suscitò allarme e preoccupazione tanto a Londra che a Parigi: ci fu un intenso scambio di note diplomatiche, ma poiché nessuno fra i contendenti era esen­te da «intrusioni» in Africa, tutto fu appianato con il riconoscimen­to del fatto compiuto, mentre il Parlamento approvava il passaggio della colonia di Assab dalla Com­pagnia Rubattino allo Stato e la di­chiarava, con legge del 5 luglio 1882, “territorio italiano”. Il Gover­no rilevava dalla “NGI Navigazione Generale Italia” i dirit­ti che la compagnia aveva acquisito, fissandone il prezzo di 417 mila lire e stanziando contemporaneamente 250 mila lire per fondare i quel territorio il primo stabilimento coloniale italiano.

Assab rappresentava una base strategica di notevole importanza, affacciata su un’ampia baia ricca di isole, nella zona meridionale della Dancalia, nonostante il cli­ma torrido, già da allora era un centro portuale e commerciale molto attivo.

Fu il primo sassolino del futuro ”impero” italiano in un’Africa già da tempo dominata da potenze co­loniali di più antico insediamento: Inghilterra, Francia, Spagna, Por­togallo, Germania, Olanda, nono­stante gli italiani potessero vanta­re importanti primati nella cono­scenza dell’Africa, dall’epoca romana fino agli scritti medievali sull’Abissina di Pietro Napole­tano (1398), di Giacomo Castaldi (1564) che fra l’altro aveva rac­colto tutto quanto era noto del con­tinente africano con una carta non dissimile da quella che quasi due secoli dopo disegnerà il francese Bourguignon d’Anville, ed altri ancora, senza dimenticare i numerosi missionari italiani.

Il secondo obbiettivo dell’inse­diamento italiano in Eritrea fu il porto di Massaua. La città era sta­ta fondata dagli arabi, quindi era stata oggetto delle mire dei porto­ghesi fra il 1520 e il 1541, poi oc­cupata dai turchi quale base di par­tenza per la conquista dell’Etiopia, infine presa dagli egiziani che però dovettero poi ritirarsi per accorre­re in Sudan dove nel 1884 era scoppiata la rivolta mahdista con­tro il malgoverno degli occupanti anglo-egiziani.

Fu a quel punto che l’Italia giocò il suo ruolo: a conclusione di lunghe e faticose trattative con Londra e il Cairo, fu concordata l’occupazione pacifica di Massaua da parte di un Corpo di spedizione al comando del Colonnello Tancredi Saletta, lo stesso che poi sarebbe divenuto Capo di Stato maggiore e quindi senatore.

Nel settembre 1885 il Generale Carlo Gené, succeduto a Saletta, proclamava la definitiva sovranità italiana su Massaua, e gli egiziani si ritirarono pacificamen­te anche se a malincuore.

Si era proceduto a piccoli passi. La nostra prima colonia ebbe in origine il nome di “Presidio di Assab”, poi, dopo l’occupazione di Massaua, si chiamò “Possedimen­ti italiani del Mar Rosso”, in seguito, ma dopo il 1° gennaio 1890, fu definitiva­mente chiamata “Colonia Eritrea”.

Inizialmente la capitale fu proprio Massaua, sino al 1897, quando fu trasferita ad Asmara.

La particolarità degli italiani si fece apprezzare non solo sul metodo singolare di “espansione coloniale”, non armato, ma anche per la loro nuova concezione di essere colonizzatori:  poco imperialisti approfittatori e molto “esportatori di protettorato”, quello che oggi avremmo chiamato “parternariato”.

Ci fu riconosciuto il grande me­rito di non essere andati in Africa per impossessarsi delle sole preziose ricchezze naturali – oro, diamanti, fosfati – e nemmeno per preleva­re “mano d’opera” da deportare o schiavizzare, ed anche le azioni militari non furono mai così aggressive come quelle messe in essere dalle grandi potenze.

Interessante, per rendere giustizia al nostro modo di essere fu l’esperienza in terra d’Africa della MOVM Pietro Toselli il quale fu desi­gnato a partire per la nostra “colonia primogenita”, l’8 novembre 1888 per assicurare un av­venire solido e tranquillo a questa colonia, dopo la sconfitta di Dogali e la successiva rioccupazione militare del territorio.

Arrivato in colonia, Pietro Toselli venne destinato allo spe­ciale “Squadrone esploratori delle truppe indigene”, allora appena formato e che poi di­venteranno i “Battaglioni degli ascari eritrei”.

Fattivo, attivo e buon cono­scitore dell’intero problema co­loniale, con speciale riguardo alle necessità e possibilità ita­liane, Pietro Toselli si mise su­bito a studiare la questione co­loniale italiana sotto il doppio profilo di questione diplomati­ca e di questione emigratoria.

Per Toselli l’azione politica e militare italiana doveva

in pri­mo luogo cercare un modus vivendi con l’Abissina  “..da ottener­si sulla base di una occupazio­ne territoriale sull’altipiano in modo da possedere una sede estiva per le truppe ed avere una difesa contro possibili fu­ture scorrerie abissine ed a pro­tezione delle carovane com­merciali…un’operazione il meno traumatica possibile per gli uomini….”. In secondo luogo, si trattava di attuare una azione moderatrice a nord con il Sudan, con accordi e non scontri da ricer­carsi con i Dervisci. In terzo luogo vi era la necessità di garantire sicurezza ai viaggi ed ai traffici verso l’ovest etiopico mediante un’acuta sorveglian­za. In quarto luogo si dovevano precisare con la Francia i limi­ti reciproci di una rispettiva so­vranità coloniale. Infine resistere diplomaticamente ad ogni ingerenza stra­niera nella colonia.

Interessante è la lettera inviata al fratello nell’agosto 1889, “sono attirato da quei luoghi fertili che paiono rap­presentare l’ideale per un inse­diamento rurale italiano”. Ed ecco apparire, in quella lettera, un aspetto molto eloquente, an­che se discordante nei proposi­ti, tra il militare inviato in mis­sione armata di occupazione e quello che potrebbe essere il contadino con modeste ambi­zioni: “… mi farò fabbricare la mia brava capanna… avrà un recinto con una capra, e maga­ri una vaccherella (qui costano poco) da latte e vivrò benone, facendo di tanto in tanto lun­ghe escursioni…”. Ed ancora “… il paese è bello, piano, pochi monticcioli; è una vasta conca che dolcemente declina a spal­to. Non una pianta… Ma l’anno venturo sarà coltivato, vi sa­ranno orti e piantagioni…”.

Il proposito appare sempre più evidente: Pietro Toselli in nome  e per conto degli “italiani”, sta dan­do inizio ad una creazione del tutto inedita ed in controtendenza con le politiche coloniali delle grandi potenze, e cioè il primo vil­laggio di colonizzazione agri­cola d’Eritrea. Il primo proget­to sembra legarsi ad una sistemazione maggiormente stabile del suo squadrone indigeno; ma ben presto, a leggere la sua corrispondenza, ecco che salta fuori evidente un proposito più ampio e più nobile: realizza­re, in concreto, un’iniziativa di colonizzazione agricola, sull’inizio indigena, ma con vocazione a diventare una prima fase di un progetto più largo che prevedeva elementi rurali italiani e vil­laggi italiani di colonizzazione Eritrea e comunque un’interazione culturale fra popoli.

Questa creazione di un picco­lissimo villaggio, nelle vicinan­ze dell’Asinara, dal nome fati­dico di “Nuova Peveragno”, in omaggio alla terra natia, è mol­to importante: avrebbe dovuto essere, in un futuro, l’inizio di tutto

un processo di ammoder­namento e di trasformazione di cui i beneficiari sarebbero stati prevalentemente gli indigeni e quindi come ritorno e scambio commerciale gli italia­ni  “… iI villaggio – scrive al fratello – avrà più di 100 capanne per le famiglie dei miei indigeni… giardino e campi coltivati da  noi l’allietano. Il villaggio avrà una scuola e due recinti, uno di fronte all’altro, che permette­ranno al copto ed al musulma­no di pregare liberamente il lo­ro Dio. Ho fatto vaccinare tutti (indigeni ed italiani). Ho stabilito una visita medica con dispensario… per tutti…”.

Credo che gli italiani si meritino questo riconoscimento: aver ribaltato l’aggressività dell’imperialismo ed  aver reso la conquista coloniale anche dal volto umano.

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