E’ uscito il nuovo numero di UNUCI TOSCANA diretto dal nostro Marcello Sladojevich.
Di questo numero segnaliamo:
“La Via Italiana alle Colonie” di Marcello Sladojevich
“Un eroico Cappellano Militare: Ten. Don Facibeni” (fondatore della Madonnina del Grappa) di Antonio Fredianelli
Una via “tutta” italiana verso il colonialismo imperiale: un’opzione militare ponderata e coordinata dalla diplomazia
di Marcello Sladojevich
Già la timida conversione economica politica dell’Italia di metà ottocento costrinse il nostro paese ad affrontare la questione di allargare gli orizzonti commerciali e di approvvigionamento delle materie prime.
L’Italia, quindi, si dovette adeguare, in concorrenza con le grandi potenze europee, alla necessità di un’espansione territoriale verso altri continenti che fino ad allora era stata qualificata come “colonialismo” ma che da metà ‘800, ancora per un secolo circa, sarebbe stata ribattezzata in “imperialismo”.
Il modo di approccio alla questione coloniale imperialista per il nostro Paese fu comunque del tutto originale che alcuni hanno poi definito, forse con disprezzo, come “via italiana all’imperialismo”. Di fatto i nostri comportamenti sul campo, sia dal punto di vista militare sia dal punto di vista politico, rappresentarono un tentativo di sviluppo di rapporti sociali e di interazione con le popolazioni “acquisite” più che una vera attività di razzia e di asservimento, comportamenti tipici delle altre nazioni imperialiste.
Per la verità anche il metodo scelto per “espandersi” fu alquanto originale, non certo con la forza delle armi, perlomeno sull’inizio, ma con l’astuzia della diplomazia e di una mascherata operazione commerciale ed economica operata da privati.
La “colonia primogenita” italiana fu in terra d’Africa, in Eritrea, terra ancora “libera” da interessi internazionali delle Grandi Potenze ma comunque limitrofa ad altre colonie.
A rendersi conto delle nostre possibilità fu padre Giuseppe Sapete, un missionario lazzarita sbarcato a Massaua e successivamente spintosi all’interno seguendo le orme di una precedente missione esplorativa condotta dall’ammiraglio Anton, uno dei navigatori napoletani della nobile famiglia di marinai inglesi stabilitasi da tempo nel nostro Paese.
Tornato in Italia, padre Sapete, già nel lontano nel 1838 ebbe modo di parlare della questione con Cavour. Comunque ancora i tempi non erano maturi per carenza di “contrappeso” politico del piccolo Stato savoiardo/piemontese di fronte a potenze coloniali come quelle francesi o inglesi.
Soltanto dopo l’avvenuta costituzione dello “Stato unitario” e comunque successivamente all’apertura del Canale di Suez, (progettato dall’italiano Luigi Negrelli e concluso nel 1869) l’idea di Sapete divenne realistica, tanto che più del “ponderato” Cavour fu Vittorio Emanuele II, favorevolmente interessato dalle “stravaganze” del missionario, ad incoraggiare il Governo a proporre una convenzione per l’acquisto di una rada o di un porto nel Mar Rosso.
Comunque il nostro Governo si mosse con la dovuta prudenza e proprio per non esporsi apertamente e non disturbare così la suscettibilità delle altre grandi potenze, fu delegata la società di navigazione dell’armatore genovese Raffaele Rubattino a stipulare un accordo che le assicurasse nel porto di Assab una base di rifornimento ed assistenza per i suoi bastimenti diretti in Oriente.
Quale fosse l’importanza di Assab, e quindi la lungimiranza strategica dell’allora Governo Italiano, lo dimostrano anche gli odierni tentativi degli etiopici di impossessarsene. La scelta di Rubattino era ben motivata, non solo perché il munifico armatore aveva fondato nel 1840 la prima compagnia di assicurazione e navigazione a vapore, ma soprattutto perché era notoriamente animato da ferventi sentimenti patriottici. Era stato proprio l’armatore genovese che aveva provveduto a rifornire e salvare i volontari della Repubblica Romana, era lui che aveva sostenuto la spedizione di Carlo Pisacane, fra l’altro rimettendoci la nave “Cagliari”, ed era stato proprio Rubattino che, facendo finta di non ostacolare, aveva permesso ai garibaldini in partenza per la spedizione dei “Mille” di impossessarsi nel porto di Genova dei suoi piroscafi Lombardo e Piemonte.
L’armatore genovese fu abilissimo nel tenere al riparo il Governo dalle trattative per l’acquisto della base di Assab: concordò un prezzo di 15.000 talleri, dei quali 250 versati a titolo di caparra.
Ovviamente a condurre la “mediazione” fu l’intraprendente missionario Sapete, che per la stipula della convenzione ritornò ad Assab a bordo del vapore Africa, e fu il “Frate”, per primo a prendere possesso, in nome e per conto, del “posto di appoggio e rifornimento” per le navi della Rubattino in viaggio verso le Indie.
Non contento di quanto già ottenuto, padre Sapete si diede ulteriormente da fare facendo acquistare anche la località di Buia e ottenendo dal sultano di Raheita la cessione delle isole Darmahié.
Per mitigare i dubbi delle potenze europee, allarmate da questa operazione, che sicuramente non consideravano meramente commerciale, il Sapete ebbe la brillante idea di costruire una baracca di legno ad Assab sulla quale fece apporre una spropositata scritta: Ufficio della Compagnia Rubattino.
Per la verità la “baracca italiana” fu anche occupata, per un brevissimo periodo, da militari inglesi della nave Cartum, inviata sul luogo dal governatore di Massaia, ma poi fu trovata una soluzione diplomatica, non militare, dagli abili diplomatici italiani che convinsero il Governo inglese della nostra funzione di interdizione alle pretese espansionistiche della Francia nel Mar Rosso.
La Corona Italiana remunerò Rubattino con un seggio da Senatore, incarico di breve durata, 1876 al 1880, poiché il “senatore” si ammalò e di lì a poco morì, 1881.
In seguito “gli italiani”, la “Rubattino” si era fusa con la palermitana “Florio” in “NGI Navigazione Generale Italia”, acquisirono anche le isole Om-El-Bakar e fra Assab e Ras Lumach, la delimitazione di un consistente territorio che si estendeva per una lunghezza di 36 miglia di costa e un interland di 630 kmq.
Intanto intorno alla “baracca della Rubattino” si era già formato il primo nucleo della futura colonia Eritrea.
A questo punto, il Governo italiano non poteva più restare nell’ombra ed infatti il ministro Cairoli istituì ad Assab un “Commissariato Civile”.
La decisione suscitò allarme e preoccupazione tanto a Londra che a Parigi: ci fu un intenso scambio di note diplomatiche, ma poiché nessuno fra i contendenti era esente da «intrusioni» in Africa, tutto fu appianato con il riconoscimento del fatto compiuto, mentre il Parlamento approvava il passaggio della colonia di Assab dalla Compagnia Rubattino allo Stato e la dichiarava, con legge del 5 luglio 1882, “territorio italiano”. Il Governo rilevava dalla “NGI Navigazione Generale Italia” i diritti che la compagnia aveva acquisito, fissandone il prezzo di 417 mila lire e stanziando contemporaneamente 250 mila lire per fondare i quel territorio il primo stabilimento coloniale italiano.
Assab rappresentava una base strategica di notevole importanza, affacciata su un’ampia baia ricca di isole, nella zona meridionale della Dancalia, nonostante il clima torrido, già da allora era un centro portuale e commerciale molto attivo.
Fu il primo sassolino del futuro ”impero” italiano in un’Africa già da tempo dominata da potenze coloniali di più antico insediamento: Inghilterra, Francia, Spagna, Portogallo, Germania, Olanda, nonostante gli italiani potessero vantare importanti primati nella conoscenza dell’Africa, dall’epoca romana fino agli scritti medievali sull’Abissina di Pietro Napoletano (1398), di Giacomo Castaldi (1564) che fra l’altro aveva raccolto tutto quanto era noto del continente africano con una carta non dissimile da quella che quasi due secoli dopo disegnerà il francese Bourguignon d’Anville, ed altri ancora, senza dimenticare i numerosi missionari italiani.
Il secondo obbiettivo dell’insediamento italiano in Eritrea fu il porto di Massaua. La città era stata fondata dagli arabi, quindi era stata oggetto delle mire dei portoghesi fra il 1520 e il 1541, poi occupata dai turchi quale base di partenza per la conquista dell’Etiopia, infine presa dagli egiziani che però dovettero poi ritirarsi per accorrere in Sudan dove nel 1884 era scoppiata la rivolta mahdista contro il malgoverno degli occupanti anglo-egiziani.
Fu a quel punto che l’Italia giocò il suo ruolo: a conclusione di lunghe e faticose trattative con Londra e il Cairo, fu concordata l’occupazione pacifica di Massaua da parte di un Corpo di spedizione al comando del Colonnello Tancredi Saletta, lo stesso che poi sarebbe divenuto Capo di Stato maggiore e quindi senatore.
Nel settembre 1885 il Generale Carlo Gené, succeduto a Saletta, proclamava la definitiva sovranità italiana su Massaua, e gli egiziani si ritirarono pacificamente anche se a malincuore.
Si era proceduto a piccoli passi. La nostra prima colonia ebbe in origine il nome di “Presidio di Assab”, poi, dopo l’occupazione di Massaua, si chiamò “Possedimenti italiani del Mar Rosso”, in seguito, ma dopo il 1° gennaio 1890, fu definitivamente chiamata “Colonia Eritrea”.
Inizialmente la capitale fu proprio Massaua, sino al 1897, quando fu trasferita ad Asmara.
La particolarità degli italiani si fece apprezzare non solo sul metodo singolare di “espansione coloniale”, non armato, ma anche per la loro nuova concezione di essere colonizzatori: poco imperialisti approfittatori e molto “esportatori di protettorato”, quello che oggi avremmo chiamato “parternariato”.
Ci fu riconosciuto il grande merito di non essere andati in Africa per impossessarsi delle sole preziose ricchezze naturali – oro, diamanti, fosfati – e nemmeno per prelevare “mano d’opera” da deportare o schiavizzare, ed anche le azioni militari non furono mai così aggressive come quelle messe in essere dalle grandi potenze.
Interessante, per rendere giustizia al nostro modo di essere fu l’esperienza in terra d’Africa della MOVM Pietro Toselli il quale fu designato a partire per la nostra “colonia primogenita”, l’8 novembre 1888 per assicurare un avvenire solido e tranquillo a questa colonia, dopo la sconfitta di Dogali e la successiva rioccupazione militare del territorio.
Arrivato in colonia, Pietro Toselli venne destinato allo speciale “Squadrone esploratori delle truppe indigene”, allora appena formato e che poi diventeranno i “Battaglioni degli ascari eritrei”.
Fattivo, attivo e buon conoscitore dell’intero problema coloniale, con speciale riguardo alle necessità e possibilità italiane, Pietro Toselli si mise subito a studiare la questione coloniale italiana sotto il doppio profilo di questione diplomatica e di questione emigratoria.
Per Toselli l’azione politica e militare italiana doveva
in primo luogo cercare un modus vivendi con l’Abissina “..da ottenersi sulla base di una occupazione territoriale sull’altipiano in modo da possedere una sede estiva per le truppe ed avere una difesa contro possibili future scorrerie abissine ed a protezione delle carovane commerciali…un’operazione il meno traumatica possibile per gli uomini….”. In secondo luogo, si trattava di attuare una azione moderatrice a nord con il Sudan, con accordi e non scontri da ricercarsi con i Dervisci. In terzo luogo vi era la necessità di garantire sicurezza ai viaggi ed ai traffici verso l’ovest etiopico mediante un’acuta sorveglianza. In quarto luogo si dovevano precisare con la Francia i limiti reciproci di una rispettiva sovranità coloniale. Infine resistere diplomaticamente ad ogni ingerenza straniera nella colonia.
Interessante è la lettera inviata al fratello nell’agosto 1889, “sono attirato da quei luoghi fertili che paiono rappresentare l’ideale per un insediamento rurale italiano”. Ed ecco apparire, in quella lettera, un aspetto molto eloquente, anche se discordante nei propositi, tra il militare inviato in missione armata di occupazione e quello che potrebbe essere il contadino con modeste ambizioni: “… mi farò fabbricare la mia brava capanna… avrà un recinto con una capra, e magari una vaccherella (qui costano poco) da latte e vivrò benone, facendo di tanto in tanto lunghe escursioni…”. Ed ancora “… il paese è bello, piano, pochi monticcioli; è una vasta conca che dolcemente declina a spalto. Non una pianta… Ma l’anno venturo sarà coltivato, vi saranno orti e piantagioni…”.
Il proposito appare sempre più evidente: Pietro Toselli in nome e per conto degli “italiani”, sta dando inizio ad una creazione del tutto inedita ed in controtendenza con le politiche coloniali delle grandi potenze, e cioè il primo villaggio di colonizzazione agricola d’Eritrea. Il primo progetto sembra legarsi ad una sistemazione maggiormente stabile del suo squadrone indigeno; ma ben presto, a leggere la sua corrispondenza, ecco che salta fuori evidente un proposito più ampio e più nobile: realizzare, in concreto, un’iniziativa di colonizzazione agricola, sull’inizio indigena, ma con vocazione a diventare una prima fase di un progetto più largo che prevedeva elementi rurali italiani e villaggi italiani di colonizzazione Eritrea e comunque un’interazione culturale fra popoli.
Questa creazione di un piccolissimo villaggio, nelle vicinanze dell’Asinara, dal nome fatidico di “Nuova Peveragno”, in omaggio alla terra natia, è molto importante: avrebbe dovuto essere, in un futuro, l’inizio di tutto
un processo di ammodernamento e di trasformazione di cui i beneficiari sarebbero stati prevalentemente gli indigeni e quindi come ritorno e scambio commerciale gli italiani “… iI villaggio – scrive al fratello – avrà più di 100 capanne per le famiglie dei miei indigeni… giardino e campi coltivati da noi l’allietano. Il villaggio avrà una scuola e due recinti, uno di fronte all’altro, che permetteranno al copto ed al musulmano di pregare liberamente il loro Dio. Ho fatto vaccinare tutti (indigeni ed italiani). Ho stabilito una visita medica con dispensario… per tutti…”.
Credo che gli italiani si meritino questo riconoscimento: aver ribaltato l’aggressività dell’imperialismo ed aver reso la conquista coloniale anche dal volto umano.