Feb 15

Quale crisi di fatto oggi affligge la nostra società? Credo sia una domanda, anche se elementare, necessaria. E’ un bel dire che ora siamo in periodo di crisi, ma necessariamente dobbiamo capire di che tipo di crisi si parla se vogliamo trovare i rimedi.  Il paziente è malato? Che malattia ha? E  quindi, che farmaci gli prescriviamo?

C’è chi dice che la nostra società sta subendo una crisi da “congiuntura economica”, ma che passerà alla svelta e quindi riprenderà il suo corso come prima. Francamente queste ci sembrano diagnosi, osservazioni, molto riduttive e mutuate dalla pratica di scienze sociali di impronta marxista, ma a nostro modo di vedere, metodo già superato.

Più articolati possono apparire quei riferimenti alle cosiddette “crisi dialettiche della società”, quelle crisi generate e poi superate con “le forze proprie della società”. Diagnosi suggestive, ma anche queste probabilmente datate dal punto di vista metodologico: forse la “crisi dialettica” era vera all’epoca della rivoluzione americana, o di quella francese ma anche di quella russa, oggi sicuramente la questione è improbabile, poiché si riscontra un’assenza assoluta di una spinta propulsiva verso il futuro, si ha la fondata impressione che il nostro sistema, quello occidentale, si stia collassando, o meglio stia implodendo. Se così fosse, questa è una crisi “entropica”: non ci sono sintomi di rinnovamento ed è come se l’agire degli stati e dei cittadini abbia perso la direzione del proprio cammino. 

Non è che non sia mai capitato nella storia una dissoluzione sociale di questo tipo: l’impero romano, tutto il feudalesimo e più recentemente l’impero comunista russo si sono dissolti per implosione, ma abbiamo la sensazione che i leader di governo non riescano a capire né la malattia e tantomeno i rimedi. Infatti, le soluzioni che di volta in volta ci vengono proposte sono alternative, “conservative”, quindi di per sé non hanno dinamica, i provvedimenti non incidono sul divenire e necessariamente sono destinati a fallire con un’unica soluzione possibile: il suicidio. Padre Giacomo Costa sostiene che alla nostra civiltà manchi il “senso”, ossia la direzione verso cui procedere. Ma il “senso” presume un’assunzione di responsabilità ed allo stesso tempo una rinuncia a quello che già possediamo poiché ciò che abbiamo accumulato è sicuramente di intralcio ad una nuova visione: “chi entra nel deserto non può tornare indietro. Quando non si può tornare indietro, bisogna soltanto preoccuparsi del modo migliore per avanzare” (Coelho). Quindi non si tratta di conservare ma bisogna disfarsi del vecchio, bisogna abbandonare le masserizie e gettarsi in mare per arrivare a nuove sponde. Per esempio negli ultimi decenni abbiamo parlato di deregulation, di privatizzazioni, di mercato che morigerava se stesso e quindi non erano necessarie norme ed organismi che controllassero e limitassero gli appetiti dei singoli, si è parlato anche di uno Stato che limitava i diritti dei soggetti e quindi doveva essere allontanato dall’ingerenza sul privato, si è parlato di sviluppo senza fine ecc. Già, sviluppo senza fine, unico fattore di valutazione del progredire di una società, il PIL, e quindi ogni provvedimento, conservativo e non di sviluppo, piegato alle necessità del PIL: poco PIL? Allora…riduzioni delle prestazioni previdenziali ai cittadini medi… ma non dei cittadini già privilegiati perché le loro prestazioni sociali si chiamavano rendite! Conseguentemente implosione della società. Poco PIL? Riduzione degli investimenti a favore delle famiglie. Rinvio dei provvedimenti sul carico familiare e quindi masse di cittadini ridotti in povertà. Poco PIL? Riduzione degli investimenti nella formazione, nella ricerca, nella scuola e nell’università, quindi niente conoscenza e niente sviluppo con la conseguente implosione del sistema produttivo ecc.

 La ricetta da conservatori, cioè da persone che non guardano al futuro e non vogliono dare senso alla vita della società è ormai nota: necessità di rinunciare ai diritti conquistati. In FIAT vogliono lavorare? Rinuncino ai diritti il tutto in armonia con i principi, a nostro modo di vedere superati, del sociologo Lipset: lo sviluppo economico è una precondizione per la promozione e l’ampliamento dei diritti. Sono necessarie certe condi­zioni economiche perché possa instaurarsi un regime democratico, per cui i si­stemi socioeconomici più sviluppati sono quelli che meglio riescono a sostenere la democrazia politica. Solo in una società sufficientemente ricca si avverano le condizioni affinché la “massa” possa partecipare in modo intel­ligente alla politica e possa sviluppare l’autocontrollo necessario per evitare di lasciarsi trascinare dagli appelli dei demagoghi. Quindi è legittimo e necessario posporre l’obiettivo della tutela dei diritti a quello della crescita economica e quindi limitare i vincoli normativi di natura sociale, per esempio la protezione dei lavoratori, per accelerare il processo di sviluppo o, nel nostro caso, l’uscita dalla crisi. In breve: meno diritti oggi per avere più sviluppo, che consentirà maggiori diritti domani.

 Ora, nel gioco dei diritti, si individuano sempre due centri di imputazione: colui che deve rispettare i diritti privandosi di proprie prerogative e chi riceve vantaggio da quel rispetto. In poche parole, secondo Lipset, qualche furbetto gaudente e tanti schiavi: ma è una teoria più che supertata come quelle che sostenevano che la dittatura è necessaria per far insorgere una democrazia!

 Molto più credibile e rispettosa della dignità della persona umana ci appare invece quella teoria di Amartya Sen secondo cui “la democrazia è precondizione dello sviluppo, soprattutto in una prospettiva a medio e lungo termine. La vera crescita economica cede il posto all’espansione delle libertà reali di tutti come vero fine e misura dello sviluppo, conseguentemente cambia la valutazione della legislazione sociale come vincolo o opportunità: in tal senso la promozione dei diritti è un fattore produttivo che contribuisce alla stabilità politica ed alla  dinamica di una (giusta) economia.

Diventa dunque importante la qualità del contesto sociale e istituzionale in cui si svolge il «libero gioco» delle forze economiche. Quanto meno una società è democratica e rispettosa dei diritti umani, tanto più sono facili i cortocircuiti fra i detentori del potere  politico e del potere economico (vedi Governo Berlusconi ndr), che possono agevolmente sostenersi a vi­cenda a scapito dell’efficienza complessiva. Il caso italiano, governo a guida di un uomo fra i più ricchi del mondo, potrebbe esserne un esempio: una democrazia più solida e più coraggiosa avrebbe saputo tenere a freno gli interessi dei “poteri forti” e premiare il merito anziché caste e rendite di posizione, ritrovandosi con un’economia più efficiente e capace di crescere.

 In un articolo complesso ma estremamente lucido, Padre Giacomo Costa, Direttore di Studi Sociali evidenzia tre ambiti in cui investire: “…riteniamo che una visione del problema imperniata sul concetto di svilup­po umano integrale possa risultare più feconda per il nostro Paese, permettendoci di associare alla ricchezza  economica variabili come la qualità della vita, la tutela delle relazioni umane, in particolare nell’ambito della famiglia, l’ambien­te, la partecipazione alla vita politica, le opportunità di realizzazione delle potenzialità umane di tutti i cittadini: tutti beni comuni il cui valore è oggi particolarmente sentito e che possono contribuire a un contesto favorevole alla ripresa economica.

In questa luce, la promozione dei diritti umani,  cioè la costruzione di una socie­tà più giusta, anziché un peso per la crescita, o un lusso a cui dobbiamo ras­segnarci a rinunciare, può rappresentare un autentico investimento per il nostro sviluppo, innanzitutto perché provare a declinarli nel concreto del nostro oggi, e non solo a dichiararli in teoria, ci obbliga ad affrontare la questione della direzione verso cui vogliamo dirigere la nostra società. E questo è un passaggio ineludibile per trovare vie di uscita da una crisi entropica. Ci sembra che ci si presentino tre ambiti in cui cominciare subito ad affrontare questo esercizio: di alcuni è già possibile intravedere potenziali ricadute economiche; tutti comunque rappresentano elementi chiave per ripren­dere una traiettoria di sviluppo umano integrale.

a)      Il welfare

b)     La partecipazione politica

c)      L’ambiente.

Il  welfare è lo strumento che le società avanzate del XX secolo si sono date per tutelare i diritti di tutti, in particolare a protezione delle fasce più deboli della popolazione. Quindi non si tratta di comprimere il welfare ma piuttosto di renderlo più equo ed adottarlo quale strumento di ridistribuzione della ricchezza fra i cittadini: già in una nostra precedente pubblicazione su questo sito si riportarono delle cifre raccapriccianti sulla distribuzione della ricchezza in Italia:  il 10%, 6 milioni circa, dei cittadini italiani si spartisce il 50% del PIL; il 20%, 12 milioni circa, dei cittadini italiani si spartisce il 30% del PIL; il 70%, 42 milioni circa, si spartisce solo il 20% del PIL.

La modernizzazione sta anche nel superare certe vecchie “ricette” economiche secondo le quali la spesa sociale viene considerata come un consumo, favorendo la concezione che la spesa sociale sia un lusso o uno spreco, mentre sicuramente la spesa sociale è un investimento.

Va inoltre sconfessata  anche l’egoistica affermazione, ormai diffusa fra tutti i nostri politici, sia di destra che di sinistra, secondo la quale la modernizzazione passa fra la contrapposizione di equità sociale e efficienza produttiva e conseguentemente si postula che l’intervento pubblico sottrae risorse all’eco­nomia, impedendo di investirle in un modo che tornerebbe a vantaggio di tutti: ma poi abbiamo visto come i vantaggi, quando ci sono, vanno a beneficio di pochi mentre gli svantaggi, quando accadono, vengono ridistribuiti a tutti ma in maniera inversamente proporzionale a fruitori di benefici!

 Sempre Padre Costa sostiene che fra i fattori dello sviluppo debbano essere considerati gli strumenti di protezione sociale che accrescono il capitale umano e che, attraverso una maggiore diffusione di reti di sicurezza, incentivano l’assunzione dei rischi connessi alle attività inno­vative e permettono una più equa ripartizione intergenerazionale degli oneri previdenziali. Sempre sul sito di The Professional Competence.it abbiamo, recentemente, sostenuto con forza che erogare una pensione di 10.000 euro mensili ad ex direttore di banca ed al contempo erogare un sussidio di disoccupazione di 800 euro ad un giovane padre di 35 anni è una mostruosità!

 La partecipazione politica è un processo in costante ampliamento, ma soprattutto la partecipazione è la potenzialità  reale riconosciuta a ciascun cittadino di concorrere alle scelte collettive, non individuali. Questa partecipazione attiva permette di colmare le distanze fra i cittadini e le istituzioni e quindi di aver fiducia negli organi rappresentativi attraverso processi di democrazia deliberativa. Ma attualmente, se prendiamo il caso Italia, i cittadini non possono esprimere la scelta politica, cioè il voto sulle persone che li dovrebbero rappresentare, a causa dei cosiddetti “listoni bloccati”. Inoltre in Italia è prevalso l’uso del culto della persona: i simboli degli organismi politici, i partiti, si sono sclerotizzati sul nome del leader e abbiamo così: Lista Berlusconi, Lista Fini, Lista Casini, Lista Di Pietro ecc., cioè liste rappresentative non di gruppi sociali che hanno una visione ed un’interpretazione dialettica della vita pubblica, ma liste rappresentative di satrapi, di condottieri, di centurioni/consoli!

 La questione ambiente potrebbe essere un modello di crescita economica attento alla sostenibilità, quindi l’ambiente è senz’altro un’opportunità che potrebbe coinvolgere più settori produttivi; allo stesso tempo potrebbe rappresentare un risparmio di risorse economiche e meno sperpero. Per esempio se utilizzassimo gruppi di famiglie insediandoli sul territorio, magari consegnando loro in comodato unità immobiliari abbandonate e comunque attribuendo incarichi di manutenzione e monitoraggio ambientale con uno stipendio medio, diciamo 1200 euro al mese, si potrebbero risparmiare i costi dei disastri atmosferici, incendi ecc. Se in Garfagnana ed in Lunigiana si fossero fatte le opere di manutenzione dei fossi di scolo dei campi e dei boschi, se si fossero “coltivate” le foreste con criterio, e non abbandonarle o abbattendo gli alberi senza metodo, forse avremmo evitato disastri per centinaia di milioni di euro, ma avremmo anche risparmiato vite umane, ma anche avremmo trovato centinai di posti di lavoro.

 Convinti che l’economia non è di per sé stessa elemento sufficiente ad assicurare progresso, sviluppo, sicurezza ed equità e comunque  certi che l’economia sia uno strumento e non un fine, ed allo stesso tempo altrettanto certi che una società armonica sia elemento primo per creare benessere economico e di “vita” a tutto il Creato (esseri viventi e non, all’ambiente insomma), non solo alla “specie umana”, vorremmo appunto contestare l’opinione prevalente che sbandiera la

costruzione di un sistema economico competitivo

e sostenere invece la

costruzione di un sistema sociale competitivo.

Per questo non siamo concordi con gli economisti americani, per esempio contestiamo Lipset, ma non siamo nemmeno d’accordo con certi economisti e certi politici di “casa nostra”, mente ci sentiamo in sintonia con la Dottrina Sociale della Chiesa Cattolica, ovviamente con quell’interpretazione laica e non “integralista”, che purtroppo sembra che ultimamente abbia preso campo.

 

 

 

written by Marcello Sladojevich \\ tags: , , , ,


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