Ott 16

Rufina, 29 settembre 2013


1Nelle Georgiche Virgilio “canta” il mito di Orfeo ed Euridice. E’ una struggente storia di amore profondo e morte: eros e tanatos (Έρως και Θάνατος). Euridice, morsa da un serpente, cade in un sonno eterno. Il cantore Orfeo sceso nell’Ade, riesce ad intenerire con la sua musica le divinità che gli concedono di riportare in vita terrena l’amata ad un patto: che nella strada del ritorno verso la terra non si fosse voltato a guardare la moglie. Ma proprio al limes, sulla soglia che divide il mondo degli umani da quello delle anime, Orfeo si volge verso l’amata moglie rompendo il patto con gli dei e condannando Euridice a permanere “per sempre” negli inferi.

Certo l’ira di un nume ti perseguita;
tu sconti gravi colpe; inconsapevole Orfeo
suscita la tua rovina e lo vogliono i Fati!,
e infelice dell’ira per la sposa perduta.

Mentre fuggiva da te a precipizio lungo il fiume,
non vide, la fanciulla già segnata da morte,
nell’alta erba, il serpente che abita le rive.
E il coro delle compagne Driadiriempdi lamenti
i monti più elevati; e piansero le vette del Rodope
e gli alti e la guerra di Reso
e pianse i Geti e l’Ebro e l’antica Orizia…..

…….Anche quando il capo, staccato dal candido collo,
l’Ebro Eagiro portava travolgendo nei gorghi,
la voce, e la lingua ormai gelida: “Euridice”,
chiamava mentre l’anima fuggiva: “O misera Euridice”,
“Euridice”, ripetevano le rive lungo il fiume”.

Da questo momento Orfeo odierà per sempre tutte le donne! E forse questo mito ebbe origine per giustificare la genesi dell’omosessualità: le Baccanti irate, per essere trascurate da quell’uomo sventurato, lo sbraneranno.

Questo stesso tema mitologico fu poi ripreso da Ovidio nella “Metamorfosi” (cap X, versi 1-77) con limpida descrizione e ricchi dettagli che quasi confondono la fluidità della finzione simbolica stessa.

Ma nelle due interpretazioni vi è una diversità di fondo, eros et tanatos in Virgilio procura una sorta di leggiadra ribellione che sembra portare poi ad un’ascesa di catartica rassegnazione al fato, non contrariamente ma “al contempo” in Ovidio vi è rassegnazione sottomessa al destino, una specie di percezione di una drammaticità irrisolvibile, quindi, per contrappasso, va ignorato “il tutto”. Questa diversità la possiamo rilevare anche nella stessa metrica adottata: l’elegante verso alessandrino in Virgilio, struttura poetico/linguistica retorica quella di Ovidio. E’ una diversità, una dualità continua che caratterizza nelle varie epoche “la storia” di Orfeo, una diversità che con grande chiarezza si rivela soprattutto nelle rappresentazioni grafiche, pittoriche e scultoree del mito.

Di lì, avvolto nel suo mantello dorato, se ne andò Imeneo
per l’etere infinito, dirigendosi verso la terra
dei Cìconi, dove la voce di Orfeo lo invocava invano.
Invano, sì, perché il dio venne, ma senza le parole di rito,
senza letizia in volto, senza presagi propizi.
Persino la fiaccola che impugnava sprigionò soltanto fumo,
provocando lacrime, e, per quanto agitata, non levò mai fiamme.
Presagio infausto di peggiore evento: la giovane sposa,
mentre tra i prati vagava in compagnia d’uno stuolo
di Naiadi, morì, morsa al tallone da un serpente….


…«O dei, che vivete nel mondo degl’Inferi,
dove noi tutti, esseri mortali, dobbiamo finire,
se è lecito e consentite che dica il vero, senza i sotterfugi
di un parlare ambiguo, io qui non sono sceso per visitare
le tenebre del Tartaro o per stringere in catene le tre gole,
irte di serpenti, del mostro che discende da Medusa….


…per l’ultima volta gli disse ‘addio’, un addio che alle sue orecchie
giunse appena, e ripiombò nell’abisso dal quale saliva.
Rimase impietrito Orfeo per la doppia morte della moglie,
così come colui che fu terrorizzato nel vedere Cerbero…

Io credo però che l’interpretazione di questo mito – Orfeo ed Euridice – raggiunga la massima fluidità descrittiva dell’immaginario e del rappresentato rappresentabile (immaginifico come direbbe D’Annunzio) con il Poliziano in la “Fabula di Orfeo”. Suggestiva in questa pieces, perché il Poliziano compone un’opera da rappresentare, è la “sequenza” in cui la testa del poeta, staccata dal collo e gettata nel fiume Ebro dalle Baccanti, rimane a galla e mentre viene trasportata dalla corrente continua a cantare ed a invocare Euridice… in tal senso chiaro è il ricongiungimento alla poetica Virgiliana che è un nobile vizio degli umanisti (rinascimentali): appunto, quello di rievocare i “classici”.

Silenzio. Udite. E’ fu già un pastore

figliuol d’Apollo, chiamato Aristeo.

Costui amò con sì sfrenato ardore

Euridice, che moglie fu di Orpheo,

che seguendola un giorno per amore…

 

Mopso: El non è tanto el mormorio piacevole

delle fresche acque che d’un saxo piombano,

né quanto soffia un ventolino agevole

fra le cime de’ pini e quelle trombano,

 

Ella fuggiva l’amante Aristeo,

ma quando fu sopra la riva giunta,

da un serpente venenoso e reo

ch’era fra l’herb’e fior, nel piè fu punta:

e fu tanto possente e crudo el morso

ch’ad un tratto finì la vita e ‘l corso.

 

Orpheo: Dunque piangiamo, o sconsolata lira,

ché più non si convien l’usato canto.

Piangiam, mentre che ‘l ciel ne’ poli agira

e Philomela ceda al nostro pianto.

O cielo, o terra, o mare! o sorte dira!

Come potrò soffrir mai dolor tanto?

Euridice mia bella, o vita mia,

senza te non convien che ‘n vita stia.

Andar convienmi alle tartaree porte

e provar se là giù merzé s’empetra.

 

Pietà! Pietà! del misero amatore

pietà vi prenda, o spiriti infernali.

Qua giù m’ha scorto solamente Amore,

volato son qua giù colle sue ali.

Orpheo: Oimè, se’ mi tu tolta,

Euridice mie bella? O mie furore,

o duro fato, o ciel nimico, o Morte!

O troppo sventurato el nostro amore!

Ma pur un’altra volta

convien ch’i’ torni alla plutonia corte.

 

Una Baccante: Ecco quel che l’amor nostro disprezza!

O, o, sorelle! O, o, diamoli morte!

Tu scaglia il tirso; e tu quel ramo spezza;

tu piglia o saxo o fuoco e gitta forte;

tu corri e quella pianta là scavezza.

O, o, facciam che pena el tristo porte!

O, o, caviangli il cor del pecto fora!

Mora lo scelerato, mora! mora!

Solo in appendice ed in “subordine” al Poliziano vorrei citare anche una “nota dantesca” in merito al mito di Orfeo. Un passo che troviamo nel Convivio (Capitolo 1, paragrafo 2) – ma anche nel Purgatorio abbiamo un riferimento ad Orfeoin questo contesto ovviamente Dante legge la “fabula” in chiave allegorica:

E a ciò dare a intendere, si vuol sapere che le scritture si possono intendere e deonsi esponere massimamente per quattro sensi. 3. L’uno si chiama litterale, [e questo è quello che non si stende più oltre che la lettera de le parole fittizie, sì come sono le favole de li poeti. L’altro si chiama allegorico,] e questo è quello che si nasconde sotto ‘l manto di queste favole, ed è una veritade ascosa sotto bella menzogna: sì come quando dice Ovidio che Orfeo facea con la cetera mansuete le fiere, e li arbori e le pietre a sè muovere; che vuol dire che lo savio uomo con lo strumento de la sua voce fa[r]ia mansuescere e umiliare li crudeli cuori, e fa[r]ia muovere a la sua volontade coloro che non hanno vita di scienza e d’arte: e coloro che non hanno vita ragionevole alcuna sono quasi come pietre. 4. E perchè questo nascondimento fosse trovato per li savi, nel penultimo trattato si mosterrà. Veramente li teologi questo senso prendono altrimenti che li poeti; ma però che mia intenzione è qui lo modo de li poeti seguitare, prendo lo senso allegorico secondo che per li poeti è usato.

A mio parere, quella dantesca è un’allegoria alquanto in tema…con l’evento pittorico di Mazzi. Orfeo viene riferito non nella sua accezione mitica ma nel suo ruolo sociale…musico che muove le cose animate ed inanimate…ed allora come non ricordare l’esperienza grafica e di immagine correlata alla musica della mostra di Vincigliata, appunto di Giovanni Mazzi? Inoltre, tanto per rimanere in tema musicale/pittorico, il mito di Orfeo ha ammaliato cantautori come Roberto Vecchioni in “Orfeo e Euridice”, per esempio.

E che dire di questa esperienza di Rufina dove Mazzi ha abbinato disegno, pittura, musica e luce radente?

E con ciò vorrei introdurre il senso “universale” a cui prelude ed è delegata ogni esperienza artista: pittura, musica, poesia, storia…storia del mito e traslitterazione dell’apparente nel “significante”, cioè quel sottinteso, o quello che sta al di là e che muta nella sua funzione interpretativa al mutare di ogni esperienza storica e sociale.

Già, il sociale: sopra nel riportare l’esperienza virgiliana intorno al mito di Orfeo abbiamo richiamato anche la funzione giustificativa della genesi dell’omosessualità. Quale messaggio più attuale di questo, oggi! Il tema della dignità di “genere” assurge da qualche tempo alle cronache della nostra società con sempre maggior veemenza…e viene posto in termini di “libertà” e di “dignità”…e non è forse, ogni espressione artistica, la più nobile forma di espressione della dignitosa libertà dell’uomo? E le nove tavole di Mazzi sono femminile e/o maschile o solo umanità? E quei corpi che si celano dietro l’apparente che “luce” diffondono? E le stesse sembianze sono maschere o realtà?

Non sono solo e certamente non sono nuovo in questa interpretazione del mito di Orfeo filtrato tramite la lettura dell’amico Giovanni, infatti oltre all’Alighieri pure Marsilio Ficino, riteneva che “…la storia di Orfeo rappresentasse la capacità della poesia (dell’arte in genere ndr) di resistere alla violenza umana”.

La relazione tra dignità e libertà varia a seconda delle aree geografiche, dei periodi storici, delle culture di appartenenza. I due concetti sono realtà sociologiche dinamiche che di volta in volta devono essere storicizzati e contestualizzati.

Ogni società definisce quali valori additare alle varie identità, in cosa consiste essere uomo o donna, essere libero, o sottomesso ecc, quindi questi sono concetti comunque relativi. Dunque il mito di Orfeo nel suo dipanarsi suscita in ogni tempo “modernità”… e quindi, comunque e sempre, è “contemporaneo”, ovviamente solo se viene ben contestualizzato da menti “esperte”. Ecco l’attualità del simbolo che è sempre significante portando con sé tout court un significato attuale!

Già, dopo qualche secolo il mito è sempre attuale ma assume una funzione metaforica diversa come per esempio in Pavese dove, come annota Pazzaglia … e pur ispirandosi alla realtà e al costume contemporaneo, tende sempre a ridurre fatti e vicende ad alcune immagini esemplari e molto significative (i miti) sentite come espressione sintetica del destino dell’uomo; la poetica di Pavese coincide con la poetica del mito, ossia “del vedere sempre la seconda volta”. L’uomo è condizionato dal suo primo vedere infantile. Nell’infanzia, in un primigenio contatto con il mondo, si sono formati in noi dei miti dei simboli che vivranno poi sempre nel nostro inconscio. Quindi ogni uomo, quando conosce razionalmente il mondo, non si trova di fronte ad una realtà ignota da indagare, ma di fronte ad una realtà assunta nel suo inconscio come mito cioè di fronte ad una realtà già vista per cui conoscere vuol dire vedere le cose per la seconda volta, Pavese delinea una connessione: infanzia-mito-destino per la quale ogni vita risulta predeterminata da alcuni eventi fondamentali delle origini. Il ritorno all’infanzia, per Pavese, non è dunque un recupero memoriale (Proust) o un ricordo di un periodo felice e per sempre perduto. (Leopardi), ma è un ritrovare nel nostro inconscio questi miti: è uno scavo nella nostra interiorità per conoscere noi stessi e il nostro destino che si è determinato nel primordiale e aurorale contatto con le cose” .

Da i Dialoghi con Leucò – L’inconsolabile Orfeo di Pavese

Il sesso, l’ebbrezza e il sangue richiamarono sempre il mondo
sotterraneo e promisero a più d’uno beatitudini ctonie. Ma il tracio
Orfeo, cantore, viandante nell’Ade e vittima lacerata come lo stesso
Dionisio, valse di più.(Parlano Orfeo e Bacca).

Orfeo: E’ andata così. Salivamo il sentiero tra il bosco delle ombre. Erano già lontani Cocito, lo Stige, la barca, i lamenti. S’intravvedeva sulle foglie il barlume del cielo. Mi sentivo alle spalle il fruscìo del suo passo. Ma io ero ancora laggiù e avevo addosso quel freddo. Pensavo che un giorno avrei dovuto tornarci, che ciò ch’è stato sarà ancora. Pensavo alla vita con lei, com’era prima; che un’altra volta sarebbe finita. Ciò ch’è stato sarà. Pensavo a quel gelo, a quel vuoto che avevo traversato e che lei si portava nelle ossa, nel midollo, nel sangue. Valeva la pena di rivivere ancora? Ci pensai, e intravvidi il barlume del giorno. Allora dissi “Sia finita” e mi voltai. Euridice scomparve come si spegne una candela. Sentii soltanto un cigolìo, come d’un topo che si salva.


Bacca: Strane parole, Orfeo. Quasi non posso crederci. Qui si
diceva ch’eri caro agli dèi e alle muse. Molte di noi ti seguono
perché ti sanno innamorato e infelice. Eri tanto innamorato che – solo tra gli uomini – hai varcato le porte del nulla. No, non ci credo, Orfeo. Non è stata tua colpa se il destino ti ha tradito.
Orfeo: Che c’entra il destino. Il mio destino non tradisce. Ridicolo che dopo quel viaggio, dopo aver visto in faccia il nulla, io mi voltassi per errore o per capriccio.
Bacca: Qui si dice che fu per amore.
Orfeo: Non si ama chi è morto.
Bacca: Eppure hai pianto per monti e colline – l’hai cercata e chiamata – sei disceso nell’Ade. Questo cos’era?
Orfeo: Tu dici che sei come un uomo. Sappi dunque che un uomo non sa che farsi della morte. L’Euridice che ho pianto era una stagione della vita. Io cercavo ben altro laggiù che il suo amore. Cercavo un passato che Euridice non sa. L’ho capito tra i morti mentre cantavo il mio canto. Ho visto le ombre irrigidirsi e guardar vuoto, i lamenti cessare, Persefòne nascondersi il volto, lo stesso tenebroso-impassibile, Ade, protendersi come un mortale e ascoltare. Ho capito che i morti non sono più nulla.
Bacca: Il dolore ti ha stravolto, Orfeo. Chi non rivorrebbe il passato? Euridice era quasi rinata.
Orfeo: Per poi morire un’altra volta, Bacca. Per portarsi nel sangue l’orrore dell’Ade e tremare con me giorno e notte. Tu non sai cos’è il nulla.
Bacca: E così tu che cantando avevi riavuto il passato, l’hai respinto e distrutto. No, non ci posso credere.
Orfeo: Capiscimi, Bacca. Fu un vero passato soltanto nel canto. L’Ade vide se stesso soltanto ascoltandomi. Già salendo il sentiero quel passato svaniva, si faceva ricordo, sapeva di morte. Quando mi giunse il primo barlume di cielo, trasalii come un ragazzo, felice e incredulo, trasalii per me solo, per il mondo dei vivi. La stagione che avevo cercato era là in quel barlume. Non m’importò nulla di lei che mi seguiva. Il mio passato fu il chiarore, fu il canto e il mattino. E mi voltai.
Bacca: Come hai potuto rassegnarti, Orfeo? Chi ti ha visto al ritorno facevi paura. Euridice era stata per te un’esistenza.
Orfeo: Sciocchezze. Euridice morendo divenne altra cosa. Quell’Orfeo che discese nell’Ade, non era più sposo né vedovo. Il mio pianto d’allora fu come i pianti che si fanno da ragazzo e si sorride a ricordarli. La stagione è passata. Io cercavo, piangendo, non più lei ma me stesso. Un destino, se vuoi. Mi ascoltavo.
Bacca: Molte di noi ti vengon dietro perché credevano a questo tuo pianto. Tu ci hai dunque ingannate?
Orfeo: O Bacca, Bacca, non vuoi proprio capire? Il mio destino non
tradisce. Ho cercato me stesso. Non si cerca che questo…

Orfeo: Tutte le volte che s’invoca un dio si conosce la morte. E si scende nell’Ade a strappare qualcosa, a violare un destino. Non si vince la notte, e si perde la luce. Ci si dibatte come ossessi…

Orfeo: Ero quasi perduto, e cantavo. Comprendendo ho trovato me stesso.
Bacca: Vale la pena di trovarsi in questo modo? C’è una strada più semplice d’ignoranza e di gioia. Il dio è come un signore tra la vita e la morte. Ci si abbandona alla sua ebbrezza, si dilania o si vien dilaniate. Si rinasce ogni volta, e ci si sveglia come te nel giorno.
Orfeo: Non parlare di giorno, di risveglio. Pochi uomini sanno. Nessuna donna come te, sa cosa sia.
Bacca: Forse è per questo che ti seguono, le donne della Tracia. Tu sei per loro come il dio. Sei disceso dai monti. Canti versi di amore e di morte.

Dunque, se faccio un’analisi comparativa, la lettura di Orfeo del Mazzi non è solo rappresentazione grafica… ma è multisensoriale… come se l’autore volesse essere “materialmente universale”, ossia la sua opera può essere percepita non solo da chi vede ma anche da di non vede ma sente, come anche da chi non sente e vede! Direi che va la di là della percezione classica dei sensi e dunque è più vicina a Virgilio, a Ovidio, Poliziano o Pavese?

Sinceramente credo che Giovanni Mazzi abbia una sua visione del mito di Orfeo che mutua da tutti gli autori ma che poi interpreta a modo suo… o meglio, direi, secondo il “segno dei tempi”! Se a scrivere mi fossi trovato nel ‘900 avrei chiamato il Mazzi “avanguardia” al pari di Chagall, Kandinskij, Tatlin e Rodcenko –ubriacati da un entusiasmo straripante, avevano come scopo il futuro, il nuovo e fondavano la loro fede su un’utopia (Olga Srichireva) – … e se invece coniassimo per questa esperienza singolarissima di Rufina “al di là della transavanguardia”, o meglio “ultratransavanguardia”?

Chissà, un giorno sarò famoso come Bonito Oliva?

Ma forse Mazzi ha tratto maggior ispirazione dalla visone di Jean Cacteau, in un film del secondo dopo guerra, (Orphée), anche per maggior assonanza artistica: uno parla per immagini filmiche ed uno, Mazzi, con “tratti pittorici/incisori oltre a musica e luce esterna all’opera ma incorporata nel soggetto rappresentato”, una luce che viene da dietro come in un cartoon ma un cartoon non è… con un suono che viene da lì e non si sa da dove… . Porca miseria!

Nell’interpretazione moderna, Orfeo guarda deliberatamente Euridice perché la fanciulla torni nel sottosuolo! Quindi è un atto potestativo, un appropriarsi del proprio “libero arbitrio”…che poi una simile lettura la troviamo anche in Bufalino con L’uomo invaso dove l’autore vede nella vicenda di Orfeo ed Euridice il luogo ideale per una riflessione sull’arte, ove si domanda se sia autenticità o finzione ed anche se l’artista sia vate incantatore o “adorabile buono a nulla” e perciò usa la forma ed il colore come schermo della sua “fatua inesistenza”.

Con Bufalino si conclude una riflessione “novecentesca” già canonizzata da Dino Buzzati con il suo “Poema a fumetti”, giustappunto dove l’autore combina testo e grafica, ovviamente a tema Orfeo ed Euridice letti in chiave moderna, proprio come Cacteau.

Nel panorama artistico di oggi manca qualcosa di nuovo e di diverso che sia attuale, moderno e contemporaneo e se io… lo intravedessi in questa mostra di Rufina, non credo di sostenere cose roboanti e di occasione in virtù di un’antica amicizia che risale a tempi non sospetti!

Ma lo sapete che è veramente difficile descrivere ed analizzare questa singolare esperienza artistica del Mazzi, unica nel suo genere fino ad oggi… senza che la si possa materialmente vedere?! Forse qualche sentore del genere lo si ritrova in certi artisti emergenti di oltreoceano ed australiani… ma solo sporadici “cenni di nuova pittura integrata”!

Insomma, in questo mio “Omaggio all’amico Mazzi” non vorrei dimenticare un suo lungo monologo che mi ha fatto a fine novembre dell’anno scorso in quel della parrocchia di San Donato in Polverosa a Novoli. Mi spiegò, pur riaffermando il suo riavvicinamento alle problematiche religiose, la sua rottura con un certo Cristianesimo dell’occidente opulento (opulento anche ideologicamente!) e con il suo intimo desiderio di dare una spiegazione moderna e scientifica della “verità” avvalendosi anche della musica e della “fisica”…o meglio di una certa “luce radente”…?!

Mi sembrò, allora, arabo. Oggi, dopo aver visto questa realizzazione, forse qualcosa in più ho capito! Sicuramente ho percepito molto: visione, suono, luce… e vibrazioni, sì, perché la luce emette onde magnetiche e vibra! Questo me lo disse Mazzi!

E’ essa stessa, come l’oggetto inciso, materia viva. E questo lo dico io!

In altri tempi, quando ci frequentavamo di più per motivi di lavoro, era più forte il travaglio interiore come fosse non risolto per lui il dilemma fra “eros e tanatos”, dilemma storico radicato, come abbiamo visto nei classici latini e greci, mentre oggi mi sembra che Giovanni Mazzi sia più vicino alle problematiche romantiche di fine ottocento.

Questa estate ho soggiornato a lungo a Praga e mi sono concesso il lusso di leggermi e rileggermi autori di origine boema da Kafka a Kundera ed ho scoperto un autore come Rainer Maria Rilke (che ha sempre scritto in tedesco pur essendo nato proprio a Praga)… soprattutto di quest’ultimo mi sembrano i suoi “Sonetti ad Orfeo” i più vicini alla sensibilità interpretativa del mondo di Giovanni Mazzi… ossia come dice lo stesso Rilke un “…innominato turbine!

Esiste davvero il tempo, il distruttore?

Quando, sul monte immobile, spezzerà il castello?

E questo cuore, che appartiene infinitamente al dio,

quando lo violenterà il demiurgo?

Sono davvero così angosciosamente fragili,

come il destino vuole farci intendere?

L’infanzia profonda e promettente,

si fa – poi – silenziosa nelle radici?” (Rilke 1922)

Ovviamente non ho analizzato il mito di Orfeo ed Euridice interpretato dal Mazzi attraverso la comparazione con le numerose pitture che si sono fatte durante i secoli perché Giovanni, pur essendo pignolo studioso di storia dell’arte, ha sempre disdegnato l’omologarsi con qualcuno che lo ha preceduto… apprezzando segni e contenuti degli “altri” ma puntigliosamente adoperandosi alla ricerca di un proprio stile, o meglio modo di vivere, che interpretasse il suo sentire originale. Pur tuttavia si deve apprezzare anche una particolare modernità “guttusiana”, ossia una “non avversione al figuratorismo” (parole testuali di Renato Guttuso) infatti, quella luce che esplode da dentro queste opere dà l’impressione che certe figure dell’antica ceramica etrusca e greca stilizzate nelle anfore, nelle idrie, nelle oinochoe o nelle pelike prendano volume e vita animata. Non sono forme morte!

Certo, per dirla con Cloude Monet, “occorre lavorare molto per arrivare a rendere quello che si cerca: l’istantaneità, lo sviluppo, la medesima luce riprodotta dappertutto”.

Lavoro ce n’è, non sono solo tracciature …questi corpi sono disegnati/incisi benissimo…e non sono piatti…sono scolpiti come se li avesse “lavorati” Fidia!

Secondo me vi è anche qualcosa di rivoluzionario in questa specifica esperienza. Un quadro lo si compra solitamente per appenderlo, per “possederlo” come proprio. In epoche moderne l’arte non è più “liturgia pubblica” per tutti, ma “apprehensio” egoistico e predazione del’oggetto.

Proviamo ad acquistare una di queste opere… e poi? Come l’appendiamo nel salotto o nel megagalattico studio del signor manager? Sicuramente c’è differenza di visione fra Marchionne e Lorenzo de’ Medici!

Oppure proviamo a smembrare ogni singola opera dal contesto e dalla sequenzialità di questa collezione…che già è unicità esoterica di per sé stessa…nove opere che poi sono tre volte tre! Da una decontestualizzazione si perderebbe il senso ontologico del moderno mito di Orfeo.

E poi, dove la colloca un privato questa collezione? In un salotto in penombra…quando le nostre case ed i nostri luoghi sono pensati per lo spreco del folgorio delle luci abbaglianti?

Solo un luogo a liturgia pubblica può ospitare questa collezione.

Credo appunto che l’esperienza fatta in questa mostra ponga anche una riflessione “politica” di come debba essere l’arte, a cosa debba servire e come e chi la debba fruire. Secondo me solo in spazi collettivi e rimodulati con nuova filosofia di vita, di ambientalismo culturale e materiale si può collocare questa “tre volte trilogia”.

Allora che dire?

Il mito di Orfeo è tutto: è l’arte che vince gli dei, gli uomini e gli animali e perfino le pietre che osano toccarlo, come in Ovidio.

Orfeo è la poesia che sovrasta la morte.

Orfeo è anche colui che non sa portare fino in fondo la sua missione (è umano!) è l’uomo che non sa rispettare le prescrizioni poiché cede facilmente alla felicità immediata ed egoistica.

Orfeo non sa frenare le passioni…altrimenti non avrebbe il dono del canto, ossia dell’arte.

Orfeo è colui che modernamente pone il problema dell’eros di genere, ma Orfeo è anche colui che ha ispirato il Poliziano e Rilke…

Orfeo è quello che ha guidato la mano ferma del pittore, mio amico da quasi una vita, Giovanni Mazzi in un’interpretazione attuale così come ha mirabilmente ispirato il musicista Federico Mengoni…oppure viceversa o… i due artisti vivono in simbiosi? Bella accoppiata! Complimenti!

Questa mostra è quasi un concentrato di simboli esoterici, è una “catabasi”, ma non una catastrofica discesa agli inferi senza ritorno, piuttosto, direi, un alchemico VITRIOL, Visita Interiora Terrae Rectificando Invenies Occultum Lapidem!

Se il mito di Orfeo sopravvive al segno dei tempi… a lungo e per sempre vivrà chi lo interpreta!

Orfeo nella mitologia greca

Dal Simposio di Platone (179d-180b)

Ὀρφέα δὲ τὸν Οἰάγρου ἀτελῆ ἀπέπεμψαν ἐξ Ἅιδου, φάσμα δείξαντες τῆς γυναικὸς ἐφ’ ἣν ἧκεν, αὐτὴν δὲ οὐ δόντες, ὅτι μαλθακίζεσθαι ἐδόκει, ἅτε ὢν κιθαρῳδός, καὶ οὐ τολμᾶν ἕνεκα τοῦ ἔρωτος ἀποθνῄσκειν ὥσπερ Ἄλκηστις, ἀλλὰ διαμηχανᾶσθαι ζῶν εἰσιέναι εἰς Ἅιδου. τοιγάρτοι διὰ ταῦτα δίκην αὐτῷ ἐπέθεσαν, καὶ ἐποίησαν τὸν θάνατον αὐτοῦ ὑπὸ γυναικῶν γενέσθαι, οὐχ ὥσπερ Ἀχιλλέα τὸν τῆς Θέτιδος ὑὸν ἐτίμησαν καὶ εἰς μακάρων νήσους ἀπέπεμψαν, ὅτι πεπυσμένος παρὰ τῆς μητρὸς ὡς ἀποθανοῖτο ἀποκτείνας Ἕκτορα, μὴ ποιήσας δὲ τοῦτο οἴκαδε ἐλθὼν γηραιὸς τελευτήσοι, ἐτόλμησεν ἑλέσθαι βοηθήσας τῷ ἐραστῇ Πατρόκλῳ καὶ τιμωρήσας οὐ μόνον ὑπεραποθανεῖν ἀλλὰ καὶ ἐπαποθανεῖν τετελευτηκότι· ὅθεν δὴ καὶ ὑπεραγασθέντες οἱ θεοὶ διαφερόντως αὐτὸν ἐτίμησαν, ὅτι τὸν ἐραστὴν οὕτω περὶ πολλοῦ ἐποιεῖτο.

 

Al contrario Orfeo, il (figlio) di Eagro, (gli dei) mandarono via dall’Ade senza risultato, avendogli mostrato un’immagine della moglie per la quale era venuto, ma non dandogli lei, perché (egli) sembrava essere poco coraggioso, in quanto era citaredo, e non avere il coraggio di morire a motivo dell’amore, come Alcesti, ma escogitare un sistema per entrare vivo nell’Ade. Appunto per questo gli imposero una punizione e fecero in modo che la sua morte avvenisse per opera di donne, non come Achille il figlio di Tetide (che) onorarono e inviarono alle isole dei beati poiché, pur essendo stato informato dalla madre che sarebbe morto se avesse ucciso Ettore, e invece se non avesse fatto ciò sarebbe morto vecchio dopo essere tornato in patria, osò decidere, venendo in soccorso dell’amato Patroclo e vendicandolo, non solo di morire per lui, ma anche di morire dopo di lui che era già morto; motivo per cui appunto essendo addirittura rimasti ammirati gli dei lo onorarono in modo straordinario, perché considerava così importante l’amato.

 

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2Orfeo ritratto in un kratēr (κρατήρ) attico a figure rosse risalente al V secolo a.C. e oggi conservato presso il Metropolitan Museum of Art di New York. Orfeo, che siede a sinistra impugnando la lira (λύρα), veste un abito tipicamente greco, a differenza dell’uomo che gli si pone in piedi davanti che invece indossa un costume tracio. Questo particolare, unitamente alla presenza, a destra, della donna che impugna una piccola falce, può rappresentare una delle varianti della sua leggenda che lo vuole missionario greco in Tracia, ucciso lì dalle donne in quanto escludendole dai suoi riti induceva i loro mariti ad abbandonarle: Dicono poi che le donne di Tracia tramavano la sua morte, perché aveva persuaso i loro uomini a seguirlo nei suoi vagabondaggi, ma non osavano passare all’azione per paura dei loro mariti. Ma una volta, riempitesi di vino, attuarono la scellerata

impresa. e da quel momento invalse per gli uomini il costume di andare ebbri alle battaglie” (Pausania, Viaggio in Grecia, IX, 30, 5).

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3Orfeo ucciso dalle menadi, in uno stamnos a figure rosse, risalente al V secolo a.C., oggi conservato al Museo del Louvre di Parigi. Questo dipinto racconta la morte di Orfeo secondo il mito che lo vuole ucciso dalle seguaci di Dioniso, da questo dio a lui inviate in quanto mosso dalla gelosia per l’ardore religioso che il poeta conservava nei confronti di Apollo, da lui invocato sul monte Pangaio (anche Pangeo) quando il sole, immagine di Apollo, sorgeva: “Non onorò (il soggetto sottinteso è Orfeo, reduce dalla catabasi) più Dioniso, mentre considerò più grande Elio, che egli chiamo anche Apollo; e svegliandosi la notte sul far del mattino, per prima cosa aspettava il sorgere del sole sul monte chiamato Pangeo per vedere Elio; perciò Dioniso, adirato, gli inviò contro le Bassaridi, come racconta il poeta tragico Eschilo: esse lo dilaniarono e ne gettarono via le membra, ciascuna separatamente; le Muse poi riunitele, le seppelirono nel luogo chiamato Libetra(fr. 113 in Testimonianze e frammenti nell’edizione di Otto Kern)

 

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A) Il primo riferimento a noi pervenuto sulla figura di Orfeo è nel frammento 17 (Diehl; 4 a Colli) del lirico greco Ibico vissuto nel VI secolo a.C., che ne testimonia già la “fama”: (ὀνομακλυτὸν Ὀρφήν) Orfeo dal nome famoso.

B) E nel frammento 265 (Page; 4 [A 1] b Colli) dello stesso poeta vengono a connotarsi già alcune dottrine orfiche[7]: (« τούς τε λευκίίππους κόρους / τέκνα Μολιόνας κτάνον, / ἅλικας ἰσοκεφάλους ἑνιγυίους / ἀμφοτέρους γεγαῶτας ἐν ὠέῳι / ἀργυρέῳι ) E uccisi i ragazzi dai cavalli bianchi, / i figli di Molione, / di eguale età, di eguale testa, uniti / in un solo corpo, nati entrambi / in un uovo d’argento (Ibico, 4, A 1)

C) Con Simonide (VI-V secolo a.C.) abbiamo la prima testimonianza della sua capacità di incantare persino gli animali: (τοῦ καὶ ὰπειρέσιοι ποτῶντο ὄρνιζες ὑπὲρ / κεφαλᾶς, ἀνὰ δ’ἰχθύες ὀρθοὶ κνανέου ἐξ ὓδατος / ἃλλοντο καλᾶι σὺν ἀοιδᾷι)  Sul suo capo volavano anche innumerevoli uccelli e diritti dalla profondità dell’acqua cerulea i pesci guizzavano in alto al suo bel canto. (Simonide fr. 40)

written by Marcello Sladojevich \\ tags:


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