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SISTEMI SOCIO-TECNICI UN MODO NUOVO DI ESSERE IMPRESA ORGANIZZAZIONE: IL CASO ITALIA

Introduzione

Non è da molto tempo che ci ritroviamo a vivere in una comunità veramente universale ed interdipendente.

Oggi quando agiamo nel politico, nel sindacale, nel “mondo dei rapporti” in genere non possiamo più circoscrivere nostri “agire” sociali, professionali o imprenditoriali in modo tale da permetterci di non essere influenzati dal resto della comunità globale.

Ancora non si è elaborato o stereotipizzato un modello culturale definito ed articolato che tratti in maniera esaustiva le anomalie e le diverse spinte che caratterizzano la civiltà contemporanea, pur tuttavia dobbiamo contribuire a trovare un ‘parametro d’indagine e d’interpretazione’ per cambiare e star così dietro ai mutamenti di un ambiente turbolento e complesso.

Il capire, “problem finding”, è questa la sfida più grande alla riuscita dello “sviluppo armonico” e quindi “problem solving”, risolvere i problemi.

Accettare la sfida dell’innovazione tecnologica è un obbligo per i paesi occidentali industrializzati; voltare le spalle a tali progressi sarebbe un suicidio sociale e/o economico. Ciò è vero per le nazioni, per le industrie e per le singole società.

L’informatica, ossia il nuovo modo di agire e comunicare, potrebbe esercitare un effetto straordinario nell’economia e nell’organizzazione sociale portando ad un aumento della produttività, ad una più completa comprensione dei “processi”, il tutto in condizioni di concentrazione di capitali relativamente bassa.

La complessità ed allo stesso tempo la fluidità organizzativa come pure un orientamento imprenditoriale o sociale dinamico sono fondamentali per la capacità evolutiva di un’industria o di una società

Secondo autorevoli studiosi, il segreto della flessibilità e di un orientamento dinamico consistono esattamente nel non seguire vie prestabilite di sviluppo, ma nell’esperimentare tecniche avanzate, di tipo dirigenziale, organizzativo e tecnico, applicate alle situazioni specifiche attraverso l’innovazione e creatività. Insomma la teoria impone di abbandonare le strutture rigide, le organizzazioni aziendali costrette in specifiche “procedure” ed indirizzarsi verso processi liberi: meglio il caos management che il rigore organizzativo di tipo “ideologico”.

I processi, e gli schemi organizzativi poi, devono essere perfettibili e non perfetti, infatti ad ogni schema pensato perfetto non si può aggiungere niente senza far saltare lo schema stesso, mentre in uno schema di per se stesso nato ad mutandum si possono sempre inserire dei cambiamenti; questa teoria è qualcosa di simile alla teoria della lacuna nel diritto: non è una nuova norma che colma la lacuna ma la prassi giuridica, essa stessa “norma in atto”, quindi non una norma rigida e chiusa di tipo meramente regolamentare, ma piuttosto norma generale ed astratta.

Il fatto è che oggi non esistono più settori obsoleti nell’economia e nella politica, ma soltanto imprese, partiti a gestione obsoleta: tanto per portare un esempio bipartisan  a gestione obsoleta sono tanto il partito PDL quanto il PD. Strano ma vero: non invecchia il soggetto sociale ma le leggi che lo hanno governato nel nascere e nel vivere; sarebbe come dire, e sarebbe un paradosso anzi un assurdo matematico…!, che nel cosmo le leggi fisiche non sono più vere e bisogna cambiare le leggi per mantenere in vita il cosmo stesso. Queste condizioni paradossali, impensabili nel mondo fisico, quindi nell’equilibrio del cosmo, sono possibili e praticabili invece nel mondo dell’economia e dell’organizzazione sociale in genere.

L’alienazione del cittadino, dell’operaio, dell’uomo costituisce la minaccia più grande ed il maggior ostacolo all’innovazione creativa. Le vie di sviluppo prestabilite, che promettono una rapida risoluzione dei problemi di competitività attraverso il trasferimento in blocco delle tecnologie straniere o delle interpretazioni sociali di scuole sorte in altri Paesi, spesso comportano una forte dose di alienazione per l’uomo di quel determinato contesto sociale.

Esempi negativi in tal senso si possono rilevare nella prima riforma sanitaria italiana, copiata dal sistema inglese, come pure nella tentata riforma del sistema scolastico cosiddetta Berlinguer (Ministro) prima e poi Moratti (Ministro), mentre in economia, negative sono state le ristrutturazioni imprenditoriali della fiat – Ghidella la voleva diversamente e forse aveva ragione – interamente scopiazzate da altri sistemi industriali, un po’ americani e un po’ giapponesi, mentre formidabili sono risultate le ultime strategie fiat a guida Montezemolo, molto  meno quelle Marchionni, fra l’altro non hanno inciso negativamente sul bilancio occupazionale e lo sviluppo aziendale quanto negativamente hanno invece inciso le ristrutturazioni di enel a guida Tato, di Ferrovie a guida Cimoli, di Alitalia, ecc.

Se dunque la tecnologia adottata ed il suo modo di operare sono molto diversi dal modo di pensare e di agire del luogo dove vengono utilizzati, la dose di alienazione può essere letale, non solo per i soggetti, ma per l’industria e per la società in genere: ci lamentiamo di una società senza felicità e che non guarda al futuro? È consequenziale.

Non si possono infatti pensare modelli di sviluppo italiani uguali a quelli inglesi, tedeschi, ecc. Quello che si iniziò con il governo Amato, ma direi, continuò anche con il governo Ciampi e poi con il primo e secondo Governo Berlusconi, è andato contro la logica di una corretta conduzione della cosa pubblica: a breve termine essa può causare irrequietezza sociale, a lungo termine può far fallire ogni qualsiasi attività imprenditoriale o anche sociale.

L’approccio che ha più probabilità  di evitare livelli di alienazione letali e allo stesso tempo di stimolare dinamismo ed innovazione creativa, presuppone un processo di “materializzazione”.

La smaterializzazione implica l’uso di tecnologie, di tecniche di gestione aziendale, di linguaggi politici o sindacali che richiedono minor quantità di materiali o di strumenti comunicativi di quelli normalmente richiesti dai metodi di produzione o comunicazione ordinari.

Invece di distruggere le abilità soggettive, le specializzazioni e gli assetti sociali o industriali esistenti, questi andrebbero valorizzati e potenziarti al massimo.

Se prendiamo ad esempio negativo alcuni settori produttivi degli anni ‘980/’990 l‘enel, le Ferrovie e le Poste o gli stessi Ministeri ci appare chiaro come lo sviluppo della “persona” viene complicato da forme organizzative rigide, chiamate “strutture”, utili nel governo momentaneo finché le strutture non diventano complicate, ossia “sovrastrutture”‘; è chiaro che un tale comportamento rende l’azienda società statica, involuta ed appunto l’involuzione dell’industria elettrica nazionale, come quella dei trasporti e dei servizi in genere, è un dato di fatto che si può rilevare dai costi di produzione elevati, dalla scarsa gradienza presso gli utenti, dalla staticità organizzativa, dallo stesso linguaggio aziendale carente. Vizi che non si sono risolti nemmeno successivamente alle loro privatizzazioni… anzi.. si è scaricato sull’utente, aimeh… divenuto cliente!, i costi e gli oneri.

Ad es., da una ricerca linguistica fatta negli archivi storici dell’ENEL se ne ricava che il linguaggio comunicativo e quello burocratico-organizzativo delle imprese elettriche dell’inizio ‘900 si è tramandato pressoché identico fino ai giorni nostri il che vuol dire che l’impresa elettrica non è evoluta dal punto di vista imprenditoriale; il peggio, poi, si è innestato dopo le privatizzazioni: il linguaggio dei managers, mentre doveva evolversi secondo i tempi e le nuove esigenze della società nuova, è ritornato, negli schemi e negli stili, molto simile a quello degli anni ‘950/’960 con ovvie complicanze sulle relazioni sociali interne ed esterne all’azienda con chiaro significato negativo ed involutivo dell’impresa stessa: troppi dipendenti… costo del lavoro caro … liquidità economica, accezioni ed acquisizioni di convinzione che hanno indirizzato le aziende verso la terziarizzazione, la delocalizzazione, ecc. distruggendo l’azienda stessa, per cui, nel breve termine queste aziende hanno registrato un incremento degli utili e dei flussi finanziari, a media e lunga distanza, ma già ora ne vediamo le prime avvisaglie, queste aziende saranno relegate nella non competitività, alla morte.

È accaduto tutto in controtendenza ad una logica innovativa elementare, che avrebbe dovuto adottare una strategia per ringiovanire le industrie tradizionali, tenendo conto soprattutto delle risorse umane e soggettive che sono di importanza vitale per la ripresa dell’industria locale, delle competitività sociali, della cultura imprenditoriale ed industriale, ecc.

La teoria dei sistemi socio-tecnici (sts) consente proprio la generazione di quei processi di “smaterializzazione” attraverso l’approccio diagnostico alle relazioni tra gruppi sociali ed i sistemi tecnici in contesti strategici ed operativi.

La sua forza risiede nella capacità di guidare i tentativi di sviluppo del mondo reale basati su un procedimento specifico di accostamento ai sistemi diacronici e ai sistemi del tipo “problema-soluzione”. Il modo di pensare sts (teoria dei sistemi socio-tecnici) dipende da una concezione basata sull’innovazione in un determinato settore dell’industria per una determinata impresa o gruppo di imprese in un determinato contesto geografico e sociale.

Al contrario, gli approcci che non si basano su tale modo di concepire non possono guidare l’innovazione industriale in situazioni concrete se non facendo ricorso alla mera intuizione (e forse a circostanze fortunose).

Definirei un esempio positivo la gestione tecnica e politica dei cantieri navali di Livorno e dei suoi terminals portuali proprio perché affrontata appunto secondo principi sts; al contrario, effetti disastrosi scaturiranno dalla vendita della Banca Cassa di Risparmio di Firenze ad Intesa-San Paolo poiché ha svincolato il sistema creditizio dalla “dinamica locale” affidandolo ad una logica avulsa dal sistema STS!

I sistemi

Un approccio sistematico all’innovazione dovrebbe dare alcune prospettive del tipo:

1. considerare ogni sistema in base ai suoi elementi di mutamento funzionale, cioè come un sistema aperto la cui capacità  si manifesta nel creare, ristrutturare e rivitalizzare strutture in iterazione con l’ambiente su cui insiste con un processo quasi infinito, non perfetto ma perfettibile;

2. considerare il sistema come un’entità estremamente complessa e probabilistica il cui comportamento può essere difficilmente “compreso” nella sua globalità, né previsto in tutti i suoi articolati aspetti e comportamenti in base a valutazioni statiche, ossia riducendo la complessità del sistema ai modelli delle scienze sociali tradizionali. «Il processo del mutamento funzionale può forse essere meglio compreso adoperando quale mezzo d’indagine e di valutazione i più recenti modelli di analisi “sistemica” e di teoria informatica» (Sartia);

3. rilevare che il procedimento sistemico consente un livello di cooperazione interdisciplinare, per esempio presupponendo un modello di sistema sociale del tipo input-output qualitativo o quantitativo, per cui questo processo sistemico è orientato verso l’azione.

La prospettiva di utilizzare un simile metodo nel progetto d’interventi attivi consiste nel fatto che rende possibile tesaurizzare conoscenze emergenti in campi diversi e quindi costituire i principi di una teoria integrata di sviluppo. Proprio quello che è accaduto a Livorno: cantieri tradizionali modernizzati nella gestione e nell’organizzazione e nei processi esecutivi, ma anche sviluppo turistico portuale con l’attracco di grandi navi da crociera che interagivano con i siti turistici della Toscana valorizzando vocazioni e professionalità tradizionali per quel territorio, sviluppo della cantieristica di fasce inferiori alla grande cantieristica: cantieristica a Cecina, a Nord di Livorno, ecc.

L’idea di una metodologia deve essere distinta dalle problematiche tecniche esecutive perché non dobbiamo ricercare qualcosa che porti ad una risposta meramente operativa (questi processi lineari e che portano ad un risultato finale sono noti come ‘algoritmi’), mentre l’approccio sistemico implica procedimenti “non algoritmici” ma comunque efficaci a dare dei risultati finali.

Questo modo di procedere si rifà ai procedimenti definiti “euristici” (dal greco eurìstos, inventiva), infatti il metodo di sistema si avvicina più ad un modo di pensare piuttosto che ad una rigida disciplina. Questa metodologia implica molti elementi intuitivi nell’applicazione delle idee sistemiche più di quanto sia prescritto dal procedimento razionale del metodo scientifico tradizionale. Tanto per portare un esempio concreto posso pensare alla Spagna di Aznar dove lo sviluppo economico, proprio adottando questo metodo, è stato di gran lunga superiore agli altri Paesi europei; fra l’altro è stato uno sviluppo gestito intra moenia e non esportando le imprese in Paesi del terzo mondo o mediorientali. Fra l’altro questo processo euristico ha creato sviluppo nel “sistema” interno alla uè: se si analizzano i distretti industriali a bassissimo impatto ambientale che da Salamanca vanno verso l’ovest fino al vicino Portogallo, abbiamo palese un panorama socio-economico formidabile.

Questo modo di procedere implica la valutazione di un arricchimento (creatività) individuale verso il sistema produttivo-sociale.

In altri termini un “pensatore sistemico” impegnato “nel suo lavoro avrà sempre la certezza che ci sarà “un osservatore che darà una spiegazione del ‘mondo”in termini sistemici, apprezzerà l’agire in quel dato modo, sarà convinto che qualcuno cercherà di dare una risposta e di comprendere il suo agire: è questo il principio che li rende entità coerenti. (Ceckland).

Si dovrebbe aggiungere inoltre che il comportamento del sistema si potrebbe definire anche secondo le teorie cibernetiche, inputs e outputs, o anche con sistemi descrittivi qualitativi in un determinato momento; ma non essendo oggetto di questa riflessione, rimando l’argomento ad altro scritto di prossima pubblicazione.

La teoria

Va premesso che le speculazioni teoriche vanno comunque fatte poiché le teorie si possono considerare come guide per le ricerche: «Non c’è niente di più pratico di  una teoria poiché senza di essa ci perderemmo in un labirinto di fatti non collegati e spesso dissonanti. Ogni teoria concentra la nostra attenzione su un complessi di  fatti e di relazioni diverse» (Terhanian).

La teoria dei sistemi socio-tecnici, sts, in particolare, fornisce una piattaforma concettuale per l’evoluzione delle strategie di sviluppo di una qualsiasi organizzazione societaria. Dobbiamo, con onestà intellettuale, affermare che essa manca di un solido fondamento nell’esperienza pratica mentre i maggiori vantaggi stanno nel loro orientamento pragmatico; ciò che è carente oggi è una base metodologica su cui costruire i singoli interventi. Ma comunque rimane un’intuizione teorica aperta per cui può essere naturalmente complementare ad altre interpretazioni ed in re ipsa esiste la potenzialità di una sintesi dei processi i cui punti deboli dell’uno vengono sostenuti dai punti di forza dell’altro (principio della complementarietà).

Per la diffusione di questo modo di interpretare la società, si incontrano ancora dei problemi ma che comunque troveranno una soluzione di “pensier”‘ a mano a mano che si perfezionerà lo studio della sts – teoria dei sistemi socio-tecnici.

Innanzitutto è difficile che si verifichino le condizioni ottimali per la sua realizzazione. In generale è più probabile che l’approccio sts – teoria dei sistemi socio tecnici – venga accettato in periodi di crisi.

Tali condizioni – difficili e pericolose da determinare di proposito – nella maggior parte dei casi sono le manifestazioni di ciò che Eric Trisd identifica a «ambiente turbolento».

In secondo luogo, perché l’approccio sts possa fornire un intervento veramente efficace per l’innovazione è importante che ci sia un consulente sistemico che faciliti lo sviluppo del progetto in corso: ogni organizzazione non può essere  lasciata al caso o allo sviluppo spontaneo, ma deve essere guidata da specialisti. Ad esempio, la crisi di alcuni partiti, la DC (Democrazia Cristiana), il psi (Partito Socialista Italiano) ma anche lo stesso pci (Partito Comunista Italiano e ds (Democratici di Sinistra) ed il PD (Partito Democratico) di oggi lasciati allo spontaneismo o alle vecchie glorie non sortirà nessun risultato proprio per “carenza di approccio sistemico”.

Inoltre la teoria sts non ha ancora sviluppato i fondamenti adatti nella teoria politica per poter sostenere e coltivare ciò che John Eldred definisce «l’approa sistemico tecnico-politico».

Ciò significa che, una volta che sono stati utilizzati i principi sts per sviluppare una struttura di base funzionante per l’azienda, si devono coltivare rapporti interaziendali più complessi con particolare attenzione alla flessibilità, all’integrazione funzionale dei ruoli.

Lo sviluppo di questo aspetto della teoria sts è essenziale per risolvere la questione del modo in cui un’organizzazione debba muoversi in un’economia di mercato, quello che Russel Ackoff chiama lo stadio della «sopravvivenza» e quello della «viabilità».

In connessione con il potenziale gestionale esistente della teoria sts, il sorgere di networks industriali flessibili (fmn – flexible manifacturing networks) può fornire dei metodi per trattare i primi due problemi ed una cornice entro cui formulare una soluzione valida per un terzo problema.

Già da alcuni anni un certo numero di società, in molte parti del mondo, hanno sviluppato reti cooperative di produzione ‘decentralizzata‘, di alto livello tecnologico e gestite in modo flessibile. Le aziende di questi networks funzionano in un ambiente ricco di risorse che è capace di autoregolazione e di adattamento.

Attraverso uno schema di produzione frammentato, le aziende prese in considerazione si sono rivelate più flessibili ai mutamenti del ciclo produttivo rispetto alle grandi aziende orientate verso la produzione in serie. Queste ultime sono meno sensibili sia alle oscillazioni della domanda che all’inserimento delle innovazioni nella struttura, nella funzione e nel processo: “….d’altronde certe scelte di esternalizzazione delle funzioni produttive e di servizio di grandi aziende italiane, anche pubbliche o parapubbliche, non avrebbero avuto nessuna motivazione… con un “ma”…le aziende pubbliche o parapubbliche del sistema italiano non avevano come unico e solo obiettivo “la massima produttività e massima resa economica”… ma massimo servizio a costi contenuti ed anche calmieranti del mercato… quindi non solo funzione/aspetto meramente economico ma alto valore sociale ed economico …”. (M.Sladojevich, in conferenza su “etica e lavoro”, UCID, Firenze 2007).

Le piccole imprese del fmn sono in grado di rinnovarsi in parte sulla base delle informazioni che scorrono attraverso la rete e in parte basandosi sulle proprie capacità di adattare le nuove soluzioni tecnologiche ai bisogni specifici. Di conseguenza il sistema di produzione decentralizzato – si faccia attenzione non delocalizzato – consente un aumento della flessibilità produttiva orientata verso il mercato e diminuisce il tempo e lo sforzo richiesti dai mutamenti nella specificazione del prodotto.

Per questi motivi sono soprattutto le aziende del tipo fmn che potrebbero trarre il maggior beneficio dalla teoria sts e allo stesso tempo contribuire ad arricchirne le idee in materia d’impresa.

L’approccio sts potrebbe fondersi con il progetto fmn venendo proposto con maggior forza in zone come la Toscana ed in genere nell’Italia centro-settentrionale.

Addirittura in questi territori, la teoria sts, invece di restare emarginata ed incapsulata, potrebbe generare e sperimentare una teoria di gestione aziendale politicamente consapevole, basata sugli aspetti di cooperazione interaziendale che emergono nella fmn. Come dire… che la teoria sts migliora se stessa nel momento che si invera.

Ho letto questo processo innovativo ed i risultati positivi in una piccola impresa la tnt (produce il famoso tessuto non tessuto nel distretto socio tecnico di Parto, senza avvalersi del sommerso o esportare la produzione in Paesi dell’Est o avvalersi del mercato della manodopera cinese; ho conosciuto i titolari di TNT quando mi sono occupato della ristrutturazione/salvataggio di Millennium, società di servizi della Confederazione Misericordie). Le performances della tnt degli ultimi dieci anni sono state eccellenti: la gradienza dei dipendenti è ottima, la morbilità ed assenteismo aziendale bassissima… quasi inesistente, prezzi di mercato praticati fra i più bassi e la qualità del prodotto la più alta: insomma il tutto molto OK!

LA STORIA

La teoria sts nacque dai conflitti sociali al principio del xx secolo.

Il modello di gestione del tipo uomo-macchina che divenne piuttosto comune nel funzionamento delle fabbriche fu presentato da Frederick Winslow Taylor nel 1911. Questo modello (esemplificato dai primi sistemi di produzione della Ford Motor Company) poneva l’accento sull’alto livello di efficienza, frazionando il lavoro nelle sue più semplici operazioni ed attribuendo ad una singola persona la responsabilità di portare a termine quella operazione, in modo ripetitivo, in un dato periodo di tempo. Ad esempio, se produrre un certo articolo richiedeva di avvitare un bullone in una determinata fase del ciclo produttivo, questo compito veniva assegnato ad una persona dalla quale non ci si aspettava altro che avvitasse bulloni ad un ritmo prestabilito.

La ‘catena di montaggio’, con l’uso concomitante del nastro trasportatore, fu il risultato diretto dell’applicazione dei principi che divennero noti come Scientific Management (organizzazione scientifica). Come reazione agli aspetti dequalificanti e disumanizzanti dello Scientific Management sorse negli anni ’20 un movimento noto come Human Relations Movement.

Invece di insistere sugli aspetti tecnologici della produzione, esso concentrava l’attenzione sugli aspetti sociali: i rapporti fra direzione e mano d’opera, il morale dell’operaio, il benessere fisico e psicologico della forza lavoro, le condizioni dell’ambiente di lavoro, ecc.

Comunque, a causa di una serie di fattori, questo movimento ebbe meno successo dello Scientific Management Movement (V. V Harry Braverman, Samuel Haber, E. P. Thompons).

La teoria dei sistemi socio-tecnici derivò  da questo dilemma: essa sosteneva che i sistemi di produzione più  stabili sono quelli che non tentano di ottimizzare gli aspetti tecnici o sociali del lavoro, ma piuttosto quelli che tentano di ottimizzare l’intero processo socio-tecnico.

Questo può voler dire, talvolta, produrre senza efficienza o al massimo delle capacità per favorire i rapporti sociali tra gli operai.

Altre volte può richiedere tagli ai salari diffusi a tutta l’azienda per garantirne la sopravvivenza dell’azienda e della stessa capacità occupazionale.

Questa pratica si dovrebbe adottare in tutto il manufatturiero italiano per fronteggiare la crisi produttiva e di mercato in cui versa la nostra impresa nazionale: lo si chiami questo lavoro sostenuto o salario di solidarietà o di garanzia, magari con uno strumento di garanzia al di fuori di ogni singola azienda dove confluiscono risorse in periodo di vacche grasse e da dove si attinge in periodi di vacche magre. L’idea centrale e lo scopo finale è di ottimizzare sia gli aspetti sociali che quelli tecnologici del sistema produttivo.

Se prendiamo il caso delle filande casentinesi, di Subbiano: gli interventi risanarono le finanze della Spa proprietaria, ma adesso non esiste più o quasi un’industria tessile in quel comprensorio, si sono persi oltre 800 posti di lavoro fra indotto e diretti ed il tessuto sociale sta andando in degrado. Forse qualche debito in più e contratti di solidarietà avrebbero salvato un distretto, una tradizione ed una comunità!

Alla base di questa teoria c’è l’Yutonomons work group: tali gruppi sono stati realizzati nello stabilimento della Volvo a Uddevalle in Svezia ad es.; qualcosa ha fatto, a metà anni novanta, la Zanussi in Italia con il progetto Ipazia; timidi tentativi li ha approcciati anche la fiat; altre aziende, sclerotizzate da un’organizzazione a piramide, vedi i’enel o Ferrovie, per “scopo/funzione istituzionale” e per dimensione chiamate a fare da esempio alle altre industrie pubbliche e private hanno escluso ogni forma nuova di lavorare con il risultato di essere nel futuro aziende o improduttive o fuori mercato e peggio ancora fuori dinamica socio-economica. Perla verità già oggi, quello che è rimasto di queste grandi imprese, non ha  più significato.

Il gruppo di lavoro comprende una squadra di “dipendenti/operai” che portano avanti una serie di attività in un sottosistema dell’organizzazione ben identificabile e circoscritto. Esso consiste in un gruppo che lavora faccia a faccia con uno scopo ben definito e condiviso che tiene unite le persone e le loro attività. Si tratta di sistemi di apprendimento che tentano di risolvere i problemi, sia tecnici che sociali, giorno per giorno attraverso la manipolazione tecnologica delle macchine e la negoziazione di particolari bisogni con i fornitori e gli utenti. I tratti fondamentali del nuovo modello organizzativo proposto dalla teoria sts sono delineati in questa Tabella presa da una pubblicazione di Trist del 1981:

VECCHIO MODELLO

  • L’imperativo tecnologico.
  • L’uomo come estensione della macchina.
  • L’uomo come pezzo di ricambio spendibile.
  • Alienazione.
  • Massima frammentazione dei compiti.
  • Abilità semplici, limitate.
  • Controlli esterni.
  • Supervisori personale e procedimenti specialistici.
  • Organizzazione verticale stile autocratico.
  • Competizione.
  • Finalità unicamente organizzative.
  • Basso livello di rischio.

NUOVO MODELLO

  • Tentativi di ottimizzazione, comuni.
  • L’uomo come complementare alla macchina.
  • L’uomo come risorsa da sviluppare.
  • Responsabilità o meglio cultura della ‘deontologia’.
  • Massimo raggruppamento dei compiti.
  • Abilità molteplici ed ampie.
  • Controlli interni.
  • Sottosistemi autoregolati.
  • Organizzazione orizzontale, e non verticale, stile partecipatorio.
  • Collaborazione, collegialità.
  • Finalità dei singoli e della società.
  • Innovazione.

Il vecchio modello organizzativo derivato da Taylor è servito a portare la maggior parte dei lavoratori ad un basso livello qualitativo di vita lavorativa.

Il nuovo modello della teoria sts può, in potenza, portare ad un alto livello qualitativo tutti i membri dell’impresa.

Il ‘Gruppo di lavoro autonomo’ è simile alle unità di lavoro chiamate ‘isole‘ che si svilupparono in Italia durante gli anni ’70. Come espediente gestionale queste unità furono impiegate dalla Olivetti sulla spinta del centro studi e della fondazione Adriano Olivetti.

L’evidente coincidenza fra le condizioni che riguardano l’Autonomons Work Group, come viene formulato nella teoria dei sistemi socio-tecnici e la possibilità di creare tali condizioni in imprese di piccole e medie dimensioni, rende l’approccio sts interessante e importante appunto per le imprese di dimensioni ridotte, ma non solo: ad esempio, molti economisti ed imprenditori avevano ipotizzano un accordo gestionale ed organizzativo di tutti i dipendenti (dall’amministratore delegato all’ultimo facchino) nel gestire la crisi dell’Alitalia, che in effetti non c’è stato con i risaputi risultati… debiti sono andati e rimasti al sistema pubblico, il “buono” ai nuovi investitori ed i posti di lavoro ridotti di un terzo!

A questo punto diventa quindi necessario evidenziare la differenza tra i sistemi industriali su vasta scala e i sistemi industriali di medie e piccole dimensioni, insistendo sul fatto che anche i sistemi di vasta scala potrebbero essere comunque frazionati per funzioni tali da renderli “socialmente ed economicamente manovrabili”.

Le imprese di piccole e medie dimensioni, come categorie relative, devono rispondere alla domanda di consumo con tecnologie flessibili e capaci di adattamento.

Basandosi su produzione in serie e su sistemi di distribuzione geograficamente diffusi, le grandi imprese non necessitano di tali meccanismi di risposta immediata.

Le grandi imprese si possono differenziare da quelle piccole e medie secondo i criteri dello ‘stile tecnologico’.

Lo stile tecnologico delle imprese piccole e medie si basa sulla motivazione partecipatoria, sulla produzione autonoma di gruppo e pone l’accento sulla qualità e l’abilità tecnica e sulla produzione fuori serie.

Lo stile delle grandi imprese centralizzate implica l’uso di incentivi di produzione, di un’organizzazione della catena di montaggio e pone l’accento sulla quantità ed efficienza della produzione e sulla standardizzazione del prodotto.

Naturalmente la teoria sts non fornisce l’unica formulazione e l’unico approccio all’affermazione e alla progettazione dell’innovazione industriale. La metodologia nota come «analisi di cambio» sviluppata da Langefors all’Università di Stoccolma, è un notevole esempio di analisi dei mutamenti socio-tecnici sopratutto da un punto di vista organizzativo e in secondo luogo da un punto di vista tecnologico.

L’opera di Enery e Trist nata al Tavistock Institute of Human Relations in Inghilterra, più tardi studiata e sperimentata all’Ontario Quality of Working Life Center ed alla Wharton School dell’Università di Pennsylvania, ha concentrato l’attenzione sullo sviluppo della teoria dei sistemi socio-tecnici.

L’idea chiave di questo approccio è l’ottimizzazione comune degli aspetti sociali e tecnologici del sistema produttivo.

Gli studi sulla Qualità della Vita Lavorativa, che prendono in esame i problemi della tecnologia e della scelta organizzativa, abbondano negli Stati Uniti, in Canada, in Europa ed in Giappone, mentre, stranamente, “…da qualche tempo sono stati pressoché abbandonati in Italia sulla spinta di un millantato neoliberismo che non è per altro che un mascherato ed ormai obsoleto capitalismo soggettivista ed egoista…”.(M.Sladojevich, in conferenza su “etica e lavoro”, UCID, Firenze 2007).

La metodologia della progettazione interattiva sviluppata da Ackoff e dai suoi collaboratori al Dipartimento di Scienze dei Sistemi Sociali della Wharton School ha fatto molto per portare avanti la comprensione della rappresentazione e degli interventi riguardo ai sistemi sociali.

Inoltre esiste un’ampia letteratura sulla Fusione Tecnologica che si è sviluppata dagli studi sulla Tecnologia Appropriata nella programmazione dello sviluppo nazionale.

Comunque non tutti gli approcci utili allo sviluppo industriale derivano dalla ricerca puramente teorica.

Il successo dei networks industriali flessibili è un buon esempio di orientamento basato sull’esperienza verso la promozione dell’innovazione nei settori tradizionali dell’industria.

Per maggior estensione dello studio ritengo opportuno soffermarmi sui tratti salienti di questo processo. Si dovrebbe comunque tenere bene in mente che sia l’approccio teorico della teoria sts che l’approccio empirico degli fmn presentano delle difficoltà operative: è sempre lo stesso dualismo fra teoria e prassi!

Un orientamento più esaustivo si potrebbe trarre dalla comprensione dei principali vantaggi e difetti di ognuno dei due sistemi.

Se questi due approcci si dimostrassero complementari, potrebbero divenire compatibili i metodi derivati dalla teoria con tecniche apprese attraverso l’esperienza.

Ne risulterebbe un solido approccio ‘sistemico‘ alla rappresentazione e all’intervento nello sviluppo industriale basato sull’esperienza concreta.

L’esperienza

La nascita del modello italiano di produzione flessibile risale alle ondate di scioperi degli anni ’60 nell’Italia settentrionale. Dopo gli anni ’20 sorsero nel Centro e Nord Italia alcune consistenti industrie orientate verso la produzione in serie. Nella regione tradizionalmente agricola della Toscana ed anche dell’Emilia questi industriali mandarono a monte l’autonomia del singolo operaio, creando delle condizioni in gran parte intollerabili e su cui il lavoratore non aveva nessun controllo. Molte fabbriche erano dedite alla produzione di macchinari industriali, comprensori Piombino-Livorno, Pistoia, Basso Valdarno oppure di macchine ed attrezzature agricole e manufatti primari nella Romagna e nell’Emilia.

La loro organizzazione interna era decisamente influenzata dai principi popolari, a quell’epoca non certo dello Scientific Management. Il primo vero e proprio stimolo al cambiamento avvenne dopo il ’57 con la lotta fra i proprietari delle fabbriche, i sindacati di sinistra filocomunisti e i loro attivisti all’interno degli stabilimenti. Molte delle nuove imprese evadevano le tasse, rifiutavano di pagare i contributi sociali, imponevano pesanti orari di lavoro, facevano uso di materiali tossici in condizioni di lavoro rischiose e pagavano salari insufficienti. Di conseguenza molti lavoratori sindacalizzati venivano schedati ed emarginati dai processi produttivi; non avevano altre risorse se non mettersi in affari in proprio, usando tutti i mezzi possibili; ecco dunque dove ebbe inizio il modello di ‘network di stile italiano’: pochi laboratori, male attrezzati in cui gli operai disoccupati lottavano per sopravvivere; ci riferiamo soprattutto alle realtà del Basso Valdarno e dell’Emilia.

In seguito per molti anni, operai sempre più esperti lasciavano le fabbriche, scontenti dei loro limitati differenziali salariali e delle scarse possibilità di carriera. La ‘fiducia in se stessi’ divenne una regola di vita e solamente nel comprensorio di Carpi il numero delle piccole imprese crebbe di sei volte nel trentennio ’50-’80 e qualcosa di simile accadde nel comprensorio tessile di Prato e del ‘cuoio’ nel Basso Valdarno.

Col passar del tempo numerose piccole aziende stabilirono legami industriali di tipo comunitario che erano destinati a trasformare il carattere dell’economia delle regioni dell’Italia centrale.

Come scriveva Hatch, questi lavoratori impararono ad equilibrare i legami verticali con le grandi industrie con i legami orizzontali con altre piccole imprese simili a loro: cooperative e consorzi di bacino: Emilia docet.

La cooperazione fra imprese rese possibile fare offerte congiunte per appalti più consistenti e più vantaggiosi. L’esperienza del subappalto portò alcune aziende a rendersi conto che la produzione dei singoli partecipanti al network si poteva coordinare per creare prodotti completi per l’industria e per i consumatori.

Le occasioni di successo sul mercato furono moltiplicate dal fatto che ogni azienda poteva far parte di due, tre o molti networks.

In pratica, questo tipo di impresa finanziaria-comunitaria, un network di specializzazione flessibile è ancora tipica del moderno modello di fmn della Toscana e dell’Emilia Romagna. Queste attività sono state possibili perché anche sostenute ed incentivate da tanti Istituti di Credito locali, ‘Banchine’, Casse Artigiane, Casse rurali. Poiché questi istituti di credito sono sotto tiro, a causa di continui tentativi di acquisizione o incorporazione da parte di banche forti del Nord, forti finanziariamente, ma vocate alla sola speculazione finanziaria e avulse dal territorio, è auspicabile che ci sia un intervento politico di contenimento dell’espansione dei grandi gruppi bancari per evitare la devitalizzazione del territorio.

Debbo far notare che le esperienze dell’Emilia e della Toscana sono diverse dalle esperienze industriali del Nord-Est di questi ultimi anni: al Nord-Est dove si attua una decontestualizzazione del tessuto sociale sta per scomparire l’adeguamento fra il territorio, la società, il gruppo, ecc., a vantaggio di una visone meramente utilitaristica del binomio lavoro-produzone.

Il progetto

Il tipo di struttura industriale sopra delineato favorisce le abilità e le iniziative dei suoi promotori.

I networks industriali flessibili tendono alla teoria dei sistemi socio-tecnici ed
offrono la possibilità di una curva di apprendimento comune a coloro che applica
no i concetti
sts e desiderano allo stesso tempo sviluppare ulteriormente il modello fmn.

Il concetto di network industriale flessibile riguarda quei complessi di piccole
imprese integrate e reciprocamente dipendenti che compongono i cosiddetti Villaggi artigiani: tipici esempi sono il comprensorio del cuoio nel Basso Valdarno o
la zona di Prato o di Carpi, ma anche il sito cantieristico navale di Cecina o di Viareggio.

Ora esistono forti incentivi all’associazionismo imprenditoriale (molti sono i consorzi di promozione) per le piccole imprese che si adattano a tutta la gamma delle diverse esigenze delle aziende artigiane.

La legge italiana considera imprese artigiane quelle organizzazioni imprenditoriali commerciali che impiegano meno di 15 operai nelle quali il proprietario è impegnato a tempo pieno. Le dimensioni di queste piccole aziende, nei comprensori da noi analizzati, oscillano mediamente intorno a 12 o 13 persone ma si verifica che alcune abbiano soltanto 3/4 addetti.

Le comunità produttive costituite da tali aziende hanno cominciato a svilupparsi in alcune aree periferiche delle città, ma non sono simili ai parchi industriali degli Stati Uniti dove oltre a comprendere da 100 a 200 aziende, spesso includono spazi ricreativi e pongono l’accento sull’equilibrio tra creazione e ricreazione in condizioni lavorative sane ed in processi di produzione innovativi.

Il nostro sviluppo industriale dal punto di vista urbanistico lascia molto a desiderare e quindi il nostro territorio sarà tutto da rivisitare e progettare. Stiamo attenti però: riqualificare un distretto produttivo non vuol dire trasformare in edilizia residenziale le vecchie fabbriche, affidando le vecchie unità produttive alla speculazione edilizia e compiendo così il duplice errore di urbanizzare a fini civili, quindi concentrando antropizzazione in aree marginali rendendo l’impatto ambientale sproporzionato, insostenibile e spostare il problema socio-organizzativo imprenditoriale in aree nuove, senza risolverlo. L’area dell’interporto fra Pisa e Livorno potrebbe in futuro presentare questi problemi.

I moderni fmn includono il concetto dì ‘Specializzazione flessibile‘ come viene applicato nell’orientamento altamente tecnologico delle singole industrie. Nel modello di specializzazione flessibile è fondamentale l’importanza degli impianti a controllo numerico (nc) o a controllo numerico computerizzato (cnc) che variano dai processi cad-can all’automatizzazione più avanzata dei macchinari.

Gli impianti nc si possono facilmente programmare per eseguire tutta la serie di semplici operazioni delle quali si compongono i lavori alle macchine.

I microcomputer incorporati in questo tipo di attrezzature consentono ad es. ad un metalmeccanico esperto di ‘insegnare’ ad una macchina una sequenza di tagli, semplicemente eseguendoli una sola volta o trasferendo le proprie conoscenze in un programma attraverso dei comandi diretti inseriti in una tastiera posta su un piano del laboratorio.

Una specializzazione flessibile non solo utilizza, le più avanzate tecnologie flessibili‘ ma richiede anche un alto livello di alfabetizzazione tecnologica da parte dei suoi operatori. Tutti i membri di un’impresa devono essere tecnicamente competenti e tutti devono avere voce nella sua gestione. Come ha detto il proprietario di un’impresa artigiana italiana: “… noi siamo tutti operai e stiamo diventando i managers di noi stessi”. Infatti:“L’attenzione dei proprietari è concentrata sulla “qualità”, sulla necessità di utilizzare le più avanzate tecnologie e di impiegare e mantenere personale dotato di molteplici abilità e responsabilizzato, sulle conoscenze e sulla capacità di reazione ad un mercato veramente globale e sulla cultura della imprenditorialità degli operai” (Hatch), non certo nello spostare l’unità produttiva altrove.

Bisognerebbe mettere in evidenza il fatto che il sistema fmn adottato dai proprietari di imprese artigiane del Centro Italia ha portato allo sviluppo di una struttura produttiva capace di offrire una straordinaria varietà di prodotti che non solo soddisfano i bisogni dei consumatori, ma riescono addirittura ad interpretare le variazioni dei loro gusti.

La capacità della piccola impresa di creare nuovi prodotti è rafforzata da un lato dalla sua fiducia in un network industriale flessibile, che consiste in numerose imprese vicine ed impegnate in attività simili, e dall’altro dall’importanza che essa attribuisce alle tecniche di specializzazione flessibile in base alle quali gli operai specializzati e i tecnici sviluppano rapporti di collaborazione all’interno della fabbrica.

I concetti fondamentali del modello fmn si possono riassumere nel seguente modo:

incoraggiare i tentativi di rinnovamento là dove esistono piccole aziende da modernizzare, non delocalizzare;

– sviluppare nuove aziende e così fornire opportunità all’imprenditorialità e all’indipendenza;

– creare lavori che incentivino lo sviluppo delle abilità, la gratificazione, la mobilità e gli incrementi salariali, ma anche forme di salario solidale;

– ridurre la vulnerabilità settoriale e regionale ai cicli economici ed alla competizione straniera, soprattutto agendo sul sistema creditizio regionale, così come si è fatto in Francia con la settorializzazione delle banche per livelli e territorio;

– rafforzare i legami in tutte le direzioni all’interno dei sistemi di produzione decentrata;

– adeguare l’azienda alle tendenze correnti nella direzione dell’accresciuta importanza della precisione, della consuetudine e dei prodotti immessi dalla tecnologia sul mercato e all’enfasi crescente nelle pratiche inventive emergenti e tempestive (jit =just in time) fra i produttori di macchinari originali (oem);

– dare origine ad attività di scala adeguata agli insediamenti urbani esistenti e di conseguenza creare i presupposti per rivitalizzare le città più vecchie o i comprensori più sofferenti dal punto di vista urbanistico e deìl’oikos.

Allo stesso modo le idee chiave della specializzazione flessibile sono:

la fiducia nelle tecnologie più avanzate come i sistemi per facilitare la comunicazione all’interno dell’azienda e tra produttore e consumatore;

l’insistenza sull’impiego di personale tecnicamente abile, competente di gestione aziendale e dotato di orientamento innovativo ed.esperto di ogni fase Biella produzione evitando gli operai ‘bove’ e gli imprenditori ‘padroni assoluti’;

la consapevolezza e la capacità di rispondere alle richieste di un mercato vera mente globale;

la concentrazione su un’area di produzione limitata e specializzata in cui le piccole imprese possono svilupparsi nel miglior modo possibile;

– una filosofia della competizione e della cooperazione che si basi sulla comunicazione interaziendale ed istituzionalizzi i networks di imprese complementari per produrre congiuntamente i prodotti finiti.

LA COMPLEMENTARIETÀ

II problema di come presentare e diffondere le idee e le pratiche sts si può collegare a quello della diffusione dei sistemi fmn al di là di singole zone.

Nel processo di accorpamento delle aziende già esistenti in veri e propri networks, uno studioso americano, Match, suggerisce cinque tappe fondamentali:

  1. estendere i rapporti di subappalto in zone industriali circoscritte; il problema del subappalto in Italia è passato da un rigore ‘ingessato’ dalle leggi protettive ad un uso sfrenato mirato al maggior sfruttamento del soggetto prestatore d’opera e non all’esigenza di flessibilità aziendale. In tal senso andrà rivista – ecco le riforme! (La normativa civilistica in materia di lavoro, ad es. il lavoro in affitto, ex Riforma Biagi, mentre prevede di affidare la gestione del lavoro interinale ad agenzie specializzate, di fatto neocaporali, dovrebbe al contrario una gestione/relazione funzionale tra aziende collegate in un dato comprensorio ndr).
  2. Stabilire regolari linee di comunicazione fra le imprese per

analizzare, il potenziale produttivo del nascente fmn.

  1. Creare ‘incubatrici mirate’ per generare nuove imprese con l’obiettivo specifico di arricchire i networks emergenti ed incrementare le sinergie; ad es. in Toscana aver trasformato la Fidi Toscana da ente di mero finanziamento a soggetto finanziario di partecipazione è stata un’innovazione formidabile della giunta Martini.
  2. Dotare di personale modernamente educato e formato di centri servizi dei networks.

Tale progetto è estremamente stimolante sul piano teorico ma offre qualche difficoltà nella concretizzazione della teoria: è difficile incrementare, facilitare o favorire in qualche modo la nascita di un fmn.

Comunque si può agire in sincrono con la teoria sts e trovare adeguati strumenti concettuali attraverso i quali progettare un approccio utile alla gestione aziendale.

Resta il fatto che sia l’approccio sts che l’orientamento verso una specializzazione flessibile evidenziano una serie di problemi di complessa soluzione ma che se resi armonici e compatibili con la realtà daranno sicuramente delle soluzioni:

risorse umane: il problema della formazione, del reclutamento, della motivazione, della gratificazione;

– tecnologia: attenzione all’adeguamento fra modo, metodo e stile di riproduzione;

– prodotti: favorire lo sviluppo del prodotto, la ricompensa, la creatività progettuale e l’apprendimento nel lavoro;

– mercati: lavorare e coltivare mercati specifici e allo stesso tempo incoraggiare la differenziazione;

-.filosofia organizzativa: premiare la flessibilità, la creatività e la prestazione.

olti autorevoli autori sostengono che ci troviamo nel bel mezzo di una crisi di portata mondiale dovuta all’impiego di macchine con una funzione specifica e di operai semispecializzati nella produzione di merci standardizzate.

“E sostenibile che l’ambiente turbolento” richiesto da questo tipo di mutamento sistemico, discusso anche da Trist, sia già una realtà e che si avvertirà sempre più acutamente in un prossimo futuro con una crisi di sistema che investirà anche le realtà politiche e sociali, non solo quelle produttive-imprenditoriali, in maniera drammatica.

Sulla base di precedenti storici, Sabel sostiene che siamo giunti ad un punto cruciale “in cui è lo stesso percorso dello sviluppo tecnologico ad essere messo in discussione”.

Sempre Sabel definisce questo momento cruciale come “il secondo spartiacque industriale” per distinguerlo dalla rivoluzione industriale europea del XIX secolo, che sarebbe il primo spartiacque.

Il secondo spartiacque è contrassegnato dal fatto che vengono messe in discussione molte caratteristiche della moderna economia mondiale:

le tecnologie ed i procedimenti operativi della maggior parte delle società moderne;

le forme di controllo sul mercato del lavoro difese da numerosi movimenti operai, da atteggiamenti sindacali superati – ad es. il sindacato degli elettrici che cerca di osteggiare la ristrutturazione dell’attività di ‘distribuzione elettrica’ per conservare gli attuali posti di lavoro, senza pensare a imporre uno sviluppo della rete elettrica che darà occupazione e servizi a tutto il sistema elettrico nazionale -;

gli strumenti di controllo macroeconomici sviluppati da burocrati ed economisti dello Stato sociale;

– le regole dei sistemi monetati e commerciali internazionali stabilite subito dopo la seconda guerra mondiale: tutti devono essere modificati e forse abbandonati.

Se si vogliono curare i mali cronici del nostro tempo, e così la crisi già in atto, potremmo ripensare a rendere sincrona l’azione fra la teoria sts e la pratica fmn e generare così sistemi creativi in grado di coltivare un nuovo modo di essere, non solo civiltà produttiva, ma semplicemente civiltà.

Con enormi possibilità  di nuovi legami commerciali e le risorse che derivano dallo sforzo di unificazione Europea anche sul piano socio-politico, si verifica un’occasione straordinaria per applicare i nuovi approcci creativi al coordinamento e all’integrazione di interi settori dell’industria.

Ecco in cosa consiste il maggior potenziale della teoria sts. Ma un’Italia inconsapevole del suo ‘genio’ già ha sperimentato il nuovo nell’organizzazione aziendale… ma non se n’è accorta!

Forse è giunta l’ora della consapevolezza nel gestire tutta la società: quella del lavoro, quella della politica, quella della religione… insomma la societas/communitas!

written by Marcello Sladojevich \\ tags: , , , , ,


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