Mag 22

di Enrico Guarnieri

Si è chiusa il 22 Luglio 2013, la bella mostra “Les macchiaioli 1850-1874 des impressionnistes italiens?” voluta dal Museo d’Orsay, allestita nel Museo de l’Orangerie e curata da Beatrice Avanzi e da Fernando Mazzocca. Successivamente, questa mostra itinerante ha raggiunto Madrid trovando spazio espositivo nei locali della Fundacion apre fino al 5 Gennaio 2014.

PRIMA FOTO
L’esposizione, frutto della collaborazione dei ministeri e degli istituti culturali francesi ed italiani, ha ricevuto un ottimo successo di pubblico e di critica ed ha avuto il merito di portare all’attenzione internazionale questo sottovalutato gruppo artistico del nostro Ottocento. Sfogliando il bel catalogo della mostra mi ha colpito il punto interrogativo posto alla fine del titolo e riflettendoci devo lodare l’intelligenza critica degli organizzatori perché, anche per me, quel punto interrogativo è doveroso e necessario. Infatti i macchiaioli non sono stati epigoni degli impressionisti perché, questi due movimenti sono nati e si sono sviluppati quasi contemporaneamente, dando vita a due scuole di portata rivoluzionaria che hanno profondamente rinnovato la pitturata nei rispettivi paesi e se quella francese ha superato nettamente in visibilità internazionale quella italiana, ciò è dovuto alle coeve realtà socio-politiche espresse dalle due nazioni. Va detto che le due scuole, anche se geograficamente vicine sono molto diverse nella loro concezione artistica perché, da sempre, l’Italia e la Francia sono differenti per filosofia culturale, basti confrontare il loro gotico con il nostro. La loro arte medioevale è più aulica, sontuosa e dalle proporzioni grandiose, mentre la nostra è più concreta e dai rapporti proporzionali più misurati, anche se non manca certo di ricchezza e di idealizzazione, ma in modo più raffrenato. Gli impressionisti ed i macchiaioli hanno diverse affinità in comune a partire dai nomi dati loro dalla critica in senso dispregiativo, che essi adottarono da subito per reazione e soprattutto perché ritennero quegli appellativi calzanti con le loro ricerche. Hanno, anche, la comune radice nel realismo di Gustave Courbet e nella Scuola di Barbizon, movimenti nati in Francia negli anni Quaranta dell’Ottocento. Entrambi i gruppi studiarono l’incidenza della luce solare sui colori andando a dipingere en plein air, aiutati in ciò dalla praticità dei colori in tubetto, più versatili di quelli macinati nelle ciotole e furono facilitati nella resa luministica da una vasta gamma di colori che la contemporanea chimica metteva loro a disposizione.

seconda foto

È, inoltre, da sottolineare il continuo e reciproco scambio culturale fra i due paesi, come la lunga permanenza di Camille Corot nella campagna romana o i due soggiorni fiorentini di Edgar Degas, con visite e discussioni al Caffé Michelangiolo. Mentre sull’altro versante sono da registrare i viaggi a Parigi di : Domenico Morelli, Serafino De Tivoli, Vito D’Ancona e Diego Martelli, i quali portarono le novità francesi al Michelangiolo, dando luogo ad accesi dibattiti fra quegli abili avventori.

TERZA FOTO

Entrambi i movimenti rappresentarono la contemporaneità lottando contro lo sclerotico immobilismo delle accademie, ma nonostante tutte queste convergenze le due scuole giunsero ad esiti nettamente opposti, perché le condizioni socio-politiche nelle due nazioni erano molto diverse. La Francia era una nazione da tempo unita, con un forte stato centrale, governato da una borghesia che la rivoluzione industriale di fine Settecento aveva reso ancora più ricca, con classi sociali contrapposte che le rivolte del 1830 e del 1848 avevano reso diffidenti l’una dell’altra, con inoltre la cerchia degli intellettuali nettamente schierata con le classi più disagiate per cui era una nazione in grande fermento ed in forte espansione socio-economica. Tutto ciò faceva di Parigi una delle capitali più ricche e vitali del mondo e senz’altro la prima a livello artistico, perché la committenza borghese e nobiliare unita alla grande e variegata vitalità culturale facevano affluire artisti e letterati da tutte le nazioni. L’Italia, invece, era ancora divisa in regni e in granducati e proprio per la sua divisione aveva mancato l’aggancio al carro della rivoluzione industriale. Le nostre classi sociali più facoltose ed il circolo degli intellettuali non erano in forte contrapposizione perché il fine comune dell’indipendenza teneva unite tutte le forze liberali
,inoltre la nostra era una nazione economicamente più povera, la cui economia era basata per lo più su un’agricoltura scarsa di mezzi ma ricca di braccia . La Firenze tardogranducale non poteva certo competere con Parigi, anche se non era così intorpidita come a volte viene descritta, aveva una buona organizzazione agricola, basata sulla mezzadria e culturalmente era viva, perché in essa, avevano trovato riparo da tutta la penisola, artisti ed intellettuali in fuga dai loro stati, trovando ospitalità nella capitale toscana favoriti dal blando stato di polizia tollerato da Leopoldo II .
Avendo analizzato ,seppur sommariamente, le comuni caratteristiche dei due gruppi artistici e la profonda diversità sociale e politica delle due nazioni, andiamo ora a vedere la differenza formale e sostanziale che divide i toscani dai transalpini. Gli impressionisti, generalizzando, perché così non si potrebbero spiegare le opere di Paul Cézanne e di Edouard Manet, dissolvevano la forma nella luce cogliendone la fugacità attimale, illustravano la vita contemporanea della grande metropoli e gli svaghi della borghesia attraverso una pennellata a virgola vibrante e variabile, con i colori complementari che andavano a sostenere e ad arricchire quelli primari dando alle loro composizioni grande luminosità e senso atmosferico. Detto in questa maniera la loro pittura può sembrare illustrativa, ma non è così, perché questi artisti con le loro opere velocemente eseguite volevano comunicare la transitorietà degli eventi e delle cose e quindi dell’esistenza umana. Di contro i macchiaioli adottarono la tarsia di colore anch’essa a misura variabile ma per sua natura strutturalmente più ferma e costruttiva che evidenziava la sostanza delle cose il tutto rafforzato da un chiaroscuro violento dai forti contrasti e senza sfumature; inoltre non disdegnavano la prospettiva specie per le opere di maggior formato e di più ampio respiro. Infatti la loro arte era più classica di quella dei colleghi francesi, perché da noi anche gli artisti più innovativi e ribelli, durante la loro formazione non potevano ignorare i grandi capolavori dei secoli d’oro dell’arte italiana. Per esempio Odoardo Borrani, uno dei macchiaioli, era stato allievo dl pittore Gaetano Bianchi e si era formato aiutando il maestro sui ponteggi del Chiostro Verde di Santa Maria Novella, nel restauro degli affreschi di Paolo Uccello. I macchiaioli, ai loro
esordi erano perlopiù intenzionati a riformare il quadro di storia, genere all’epoca considerato primario, attraverso una maggiore consistenza formale in aperta polemica con gli eterei corpi, costruiti per velature, dai pittori alla moda ed adottarono il paesaggio in disprezzo alle accademie perché, alla metà dell’Ottocento la pittura paesistica era considerata un genere minore. Inoltre le loro opere, proprio perché eseguite a macchia, ai fruitori ed agli artisti tradizionali , sembravano dei semplici bozzetti, per questo rimanevano infastiditi e scandalizzati, perché a quelli che loro consideravano dei semplici studi venivano attribuite dignità di opere finite, tanto da essere esposte in mostre ufficiali. Quella macchiaiola fu la prima vera scuola pittorica italiana perché alle discussioni del Michelangiolo, rimasto aperto dal 1848 al 1866 , furono in prima linea, fra i tanti: Il napoletano Giuseppe Abbati, il foggiano Saverio Altamura, i pisani Cristiano Banti, Odoardo Borrani e Antonio Puccinelli, il ferrarese Giovanni Boldini, il veronese Vincenzo Cabianca, i fiorentini Adriano Cecioni, Raffaello Senesi e Telemaco Signorini, il romano Nino Costa, il pesarese Vito D’Ancona, il barlettano Giuseppe De Nittis, il forlivese Silvestro Lega, il veneziano Federico Zandomeneghi ed il livornese Gionni Fattori. Partecipò alle discussioni anche un giovane critico di grande ingegno, Diego Martelli che da subito intuì la portata del messaggio macchiaiolo, contribuendo in maniera attiva alla nascita ed allo sviluppo di questo movimento. Al Michelangiolo i dibattiti erano perlopiù incentrati sulla polemica antiaccademica e sulla soggettiva interpretazione che ognuno dava alle novità francesi, ma fecero sicuramente discutere gli echi della Scuola di Posillipo 1820-1835 illustrati da Filippo Palizzi di passaggio al Caffé e gli esiti della Scuola di Resina 1863 , località vicino a Portici riportati da Adriano Cecioni.

QUARTA fotoTutto questo crogiolo di idee diede vita ad un movimento idealmente ben allineato con le avanguardie europee e perfettamente inserito nel suo tempo e nel periodo storico risorgimentale, perché tutti questi artisti furono ferventi patrioti, per lo più mazziniani e molti di loro combatterono nelle tre Guerre d’Indipendenza, alcuni rimasero feriti e altri persero la vita. In altre occasioni ho definito i macchiaioli un incunabolo anomalo nelle arti figurative del nostro Ottocento perché, se musica, poesia e letteratura reggevano benissimo il confronto con le corrispettive arti europee, la nostra pittura fino al quel momento non era all’altezza di quella degli altri paesi continentali, restando attardata su registri neoclassici e romantici. Invece questi artisti, tutti con una produzione media di buona qualità in alcune opere hanno raggiunto esiti altissimi, creando dei capolavori di livello europeo che niente hanno da invidiare a quelli dei loro colleghi d’oltralpe. Spero che le mostre appena concluse siano un nuovo inizio per il riconoscimento internazionale della Macchia, anche se queste non sono un vero battesimo poiché in passato sono già state allestite esposizioni internazionali dedicate ai macchiaioli, ma forse i tempi non erano ancora maturi. Mi batto da sempre perché questo movimento raggiunga finalmente il posto che gli spetta nella storia dell’arte non solo nazionale, ma per fare ciò si dovrebbero allestire mostre, sempre di alta qualità, non solamente collettive ma anche monografiche e con una cadenza più regolare, senza aspettare che passino decenni fra un evento e l’altro. Si dovrebbe partire da subito e da casa nostra approfittando delle celebrazioni per il centocinquantesimo anniversario di Firenze capitale d’Italia. Perciò lancio un appello alle nostre istituzioni cittadine, perché scegliendo i curatori giusti, non sarebbe difficile preparare una mostra della qualità di quella parigina, dando l’occasione ai fiorentini e agli italiani di poter riabbracciare questi artisti che da troppo tempo non vengono celebrati in patria. Perché se è doveroso curare ed ancor più affinare l’offerta per valorizzare ulteriormente il nostro rinascimento di pari passo si dovrebbero far conoscere meglio altri due momenti magici della nostra storia cittadina quello macchiaiolo e quello delle Giubbe Rosse. Non aspettiamo sempre che i nostri migliori artisti vengano scoperti e rivalutati dal mercato e dalla critica delle altre nazioni per poi essere pienamente apprezzati anche in Italia. Cito i casi più eclatanti che per primi mi vengono in mente, quelli di: Alberto Burri,di Lucio Fontana, di Alighiero Boetti, di Piero Manzoni e di Enrico Castellani.

 

 

written by Marcello Sladojevich \\ tags: , , , , , ,


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