Mag 16
Su gentile concessione del Dott. Stefano Pasquino pubblichiamo questo articolo, estratto della monografia edita nel 2009 da The Professional Competence
http://www.pasquinostefano.it

Un’azienda che opera nel mercato avrà sempre la finalità di attirare a sè il consenso di clienti e dipendenti, ma ciò non significa che essa non possa instaurare con essi un processo di comunicazione che arricchisca entrambi. Impensabile è però che si rinuncia alla propaganda per la comunicazione, a meno che si creda tanto nel proprio lavoro che si abbia voglia di presentarlo e “comunicarlo” nel modo più trasparente. La sensazione è che ancora oggi resiste una mentalità che considera l’editoria aziendale quasi come un dovere, oppure una moda e non invece un sincero bisogno di “colloquiare” con i propri pubblici di riferimento.

Certamente oggi l’informazione dispone di strumenti potenti ed immediati, ma comunicare e informare sono due azioni differenti. Le riviste aziendali resistono e pare resisteranno alle nuove tecnologie anche in futuro giacchè queste ultime sembrano aver sviluppato le potenzialità degli strumenti classici della comunicazione, piuttosto che aver avviato il loro declino. Prima di tutto, la pubblicazione in rete internet o intranet prevede un comportamento attivo del lettore, che deve, in qualche modo, attivare il contatto, connettendosi con il sito della rivista, mentre la rivista cartacea può attrarre l’attenzione, attivando essa stessa il contatto, grazie alle diverse modalità di distribuzione. Secondo è la carta stampata a consentire il piacere della lettura, quel piacere che non coinvolge solo la sfera intellettuale, ma anche quella sensoriale, e che difficilmente sarà sostituito da un insieme di pixel, o da qualsiasi altro mezzo, per quanto innovativo.

L’affascinante connubio industria-letteratura-arte ha, nel nostro Paese, una lunga e consolidata tradizione. Questi settori, soprattutto tra Otto e Novecento, si sono spesso magicamente intrecciati, rincorsi, attratti producendo una serie di opere, sia letterarie che artistiche, di notevole importanza. Ma dal connubio tra industria, letteratura e arte sono anche nati movimenti, iniziative culturali, si sono fondate riviste. L’iniziale spinta pubblicitaria e, diremmo oggi, di politica di marketing, si è lentamente trasformata in autonoma produzione culturale, letteraria, artistica. Lo spirito imprenditoriale è stato il volano che ha poi favorito la nascita e lo sviluppo di una categoria specifica nella storia imprenditoriale: quella dell’editoria d’impresa. La prima tra le più raffinate  pubblicazioni aziendali in Italia, un caso esemplare di editoria d’impresa in cui è bene amalgamato lo spirito aziendale, la grande letteratura e l’arte, è un periodico nato nel 1895 in Liguria:  La Riviera Ligure.

Gli anni dello “stile industriale” italiano dal 1948 al 1965 rappresentano una storia unica al mondo per la comunicazione d’impresa. Il periodo che va dal secondo dopoguerra al miracolo economico vede la grande industria italiana coinvolgere intellettuali, artisti e designer nella costruzione della propria immagine pubblica. La pubblicità, rappresentò allora in Italia un terreno sul quale si consumò un vero e proprio conflitto tra le pratiche dell’advertising americano e la tradizione “artistica” della rèclame europea, tra i principi del marketing e la filosofia modernista fondata sul good design. Nel volume sulla conquista dell’Europa da parte del market empire americano, Victoria de Grazia mette in risalto come un’arma vincente nel processo di esportazione della civiltà dei consumi statunitense sia stata la capacità di imporre conoscenze, strategie e pratiche professionali. L’autrice non manca di rilevare che l’affermazione di tali saperi è stata possibile grazie alla capacità che essi possedevano di assorbire e incorporare dialetticamente le culture locali preesistenti, presentandosi come un corpus di norme pragmatiche, che riuscivano ad apparire semplicemente come naturali e moderne, o come il modo giusto di fare le cose.[1]

Casi come l’Italsider e la Pirelli, insieme a quello dell’Olivetti, dimostrano che pur fortemente influenzate dalla cultura professionale americana alcune grandi industrie italiane manifestarono, almeno fino alla metà degli anni sessanta, una certa resistenza nei confronti dell’importazione a scatola chiusa dei modelli americani, conciliando valori e aspirazioni diversi dalla  consumer revolution proveniente dagli Stati Uniti.

In particolare le teorie delle public e human relations giocarono un ruolo importante nel passaggio da vecchie formule retoriche e paternalistiche a un progetto più ambizioso di “umanizzazione” della realtà industriale.

Sulla scia dei tentativi pionieristici compiuti all’Olivetti, anche in Italia si sperimentò nel dopoguerra l’innesto all’interno dell’industria di saperi come la sociologia e la psicologia nell’ambito delle relazioni con il personale e delle strategie organizzative di impresa. Ma ciò che caratterizzò maggiormente l’esperienza di grandi aziende come Italsider e la Pirelli, al di là dell’ingresso delle nuove discipline “applicate” all’industria, fu un tentativo radicale e spesso non privo di ingenuità, di trovare un terreno di incontro tra quelle che Charles Percy Snow [2] definisce le “due culture”: nello specifico del discorso aziendale, la cultura ingegneristica o manageriale e quella artistico-letteraria.

Dalla ricerca sulle aziende come Italsider, Olivetti e Pirelli si possano rintracciare tre aspetti comuni all’esperienza di questi grandi gruppi imprenditoriali: un metodo di costruzione dell’immagine aziendale sviluppato prevalentemente dall’interno; il tentativo di trovare punti di raccordo tra le cosiddette “due culture”; e infine un rapporto controverso, non facile da decifrare, con i saperi professionali e le teorie aziendali provenienti dagli Stati Uniti. [3]

Almeno fino alla metà degli anni sessanta, nelle maggiori imprese italiane resisteva la presenza di grandi dipartimenti denominati di volta in volta “direzione stampa e pubblicità”, “servizio propaganda” o semplicemente “ufficio pubblicità”. Per quanto non sia sempre facile trovarne traccia negli archivi aziendali, ricostruire nei dettagli l’attività di tali divisioni interne alle imprese è un’operazione che può rivelarsi particolarmente fertile. Fu al loro interno, infatti, che spesso si riuscì a mettere a punto una forte identità estetica e culturale dell’industria, sulla scia del modello olivettiano.

by Dott.  Stefano Pasquino

[1] De Grazia V., L’impero irresistibile. La società dei consumi americana alla conquista del mondo, Einaudi, Torino 2006

[2] Charles Percy Snow, Le due culture, Marsilio, Venezia 2005

[3]Cfr. Guizzi C., recensione sulla giornata di studio Cultura comunicazione e impresa in Italia del 16 giugno 2008 presso la sede della Fondazione Isec di Sesto San Giovanni (Milano), sulla rivista “Storia in Lombardia”, Franco Angeli, n.3 2008

written by Elena Sladojevich \\ tags: , , , ,


Leave a Reply